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PORTO MARGHERA – Mentre oggi si firma a Roma il nuovo Accordo di programma da 152 milioni di euro, 800 milioni per il marginamento dell’area industriale hanno tolto risorse a qualsiasi riconversione

Oggi a Roma si firma il nuovo Accordo di programma per il futuro di Porto Marghera, accordo che sblocca 152 milioni di euro per investimenti su strade, banchine portuali, sicurezza idraulica. Sono importanti per creare un ambiente favorevole agli investimenti ma per far nascere nuove industrie, sottolineano i sindacati, occorre rendere disponibili le aree e quindi bonificarle.

Dei ben 229 terreni inquinati, rilevati già negli anni Novanta dentro ai 2 mila ettari di Porto Marghera, fino ad oggi ne sono stati ripuliti poco più di una ventina; e degli stessi 110 ettari che Syndial (Eni) deve trasferire a Comune e Regione per metterli a disposizione di chi vuole aprire nuove fabbriche, una buona metà sono ancora da bonificare.

Che cosa si è fatto fino ad oggi? La “grande muraglia”, o quasi nel senso che i 45 chilometri previsti non sono ancora stati completati a 13 anni dall’inizio dei lavori.

A giugno 2014 l’ingegner Piergiorgio Baita, ex presidente di Mantovani tra le imprese più importanti del Consorzio Venezia Nuova, nel corso di un interrogatorio davanti ai pm di Venezia titolari dell’inchiesta sulle tangenti del Mose, diede a Gianfranco Mascazzini il grande merito di aver portato al Consorzio Venezia Nuova un miliardo di lavori aggiuntivi potenziali (indispensabili una volta che il Mose fosse finito). E si riferiva appunto ai 45 chilometri di marginamenti dei canali e delle sponde dell’area industriale di Porto Marghera progettati per impedire che le acque di falda trascinino in laguna i veleni sotterrati a Marghera in decenni di attività delle grandi fabbriche.

I lavori sono iniziati nel 2002, quando si pensava di spendere tra i 240 e i 400 milioni, e non sono ancora finiti perché mancano i soldi per completare l’isolamento di tutte le rive con palancole piantate fino a 16 metri di profondità e un sistema di condotte e pompe che succhiano il “percolato” (l’acqua inquinata), e lo convogliano al depuratore di Fusina. Fino a oggi, ad ogni modo, di quel miliardo sono già stati spesi quasi 800 milioni, frutto delle transazioni per danni ambientali pagate al ministero dell’Ambiente dalle aziende di Porto Marghera, a prescindere dal fatto che fossero responsabili o meno dell’inquinamento e che i terreni fossero o meno inquinati.

Gianfranco Mascazzini è l’ex direttore generale del ministero dell’Ambiente, definito l’inventore del “modello Marghera” (transazioni ambientali e marginamenti) che voleva esportare in molti degli altri 57 siti inquinati italiani. Sempre l’ingegner Baita dice ai magistrati che non gli risulta di tangenti pagate a Mascazzini, e lo stesso ex direttore del Ministero nega qualsiasi ipotesi del genere sostenendo di avere agito sempre per il reale risanamento delle aree inquinate.

Al di là di eventuali illeciti tutti da dimostrare, il vero problema per Porto Marghera è che la “grande muraglia”, che oltretutto non è ancora finita, ha drenato per anni tutte le risorse disponibili per disinquinare i terreni e assicurare la rinascita della zona industriale.

Oltre alla laguna di Grado-Marano, oggetto di interesse dei magistrati di Roma per il progetto di marginamento da 230 milioni di euro, il Ministero aveva dunque tentato di esportare altrove il “modello Marghera”, come nei petrolchimici di Porto Torres, Assemini e Priolo ma in queste aree i ricorsi al Tar da parte delle aziende bloccarono l’operazione perché le più economiche barriere idrauliche proposte dalle imprese vennero considerate sufficienti a impedire l’inquinamento di altri terreni e acque.

E a Marghera cosa sarebbe accaduto? Invece di un miliardo, sarebbero state spese poche decine di milioni di euro, e con i soldi rimanenti forse oggi avremmo le aree bonificate e utilizzabili per nuove attività produttive.

 

Un’alternativa da poche decine di milioni

Le aziende proposero una rete di piccoli pozzi per intercettare le falde prima di Marghera

La vera svolta per Porto Marghera sarebbe dovuta venire dal grande processo al Petrolchimico sugli operai morti e sull’inquinamento della laguna. Le sentenze di primo grado, d’appello e pure quella della Corte di cassazione, però, hanno stabilito che le aziende del petrolchimico dagli anni Settanta in poi hanno avuto un ruolo quasi nullo nell’avvelenamento della laguna.

L’inquinamento, in realtà, è arrivato dal resto del Veneto attraverso i fiumi e dagli scarti delle produzioni industriali di Marghera risalenti agli anni Cinquanta e precedenti che venivano usati per bonificare i terreni della seconda zona industriale.

Mancate le condanne, diventava impossibile far pagare le aziende per ripulire la laguna. Negli anni precedenti il processo, dopo il 1997, con l’entrata in vigore della legge Ronchi i proprietari delle fabbriche si erano messi in moto per disinquinare i terreni e avevano prodotto uno studio in base al quale con poche decine di milioni di euro si poteva realizzare una rete di pozzi, intercettando le falde acquifere prima che arrivassero nei terreni inquinati e li trascinassero con sè in laguna.

Thetis realizzò un altro studio secondo il quale era necessaria la “grande muraglia” da un miliardo di euro. Il ministro dell’Ambiente sposò questa seconda ipotesi e, siccome servivano i soldi, li chiese alle aziende anche se non erano responsabili. Una sola azienda, Montedison, pagò 250 milioni di euro all’inizio del processo ma solo perché doveva sbarcare in Borsa e non poteva avere pendenze.

Tutte le altre, forti delle sentenze loro favorevoli (l’ultima di dicembre 2004), si rifiutarono di pagare, ma il ministero dell’Ambiente cominciò a bloccare ogni progetto di bonifica paralizzando molte imprese. Fino a fine primavera del 2005 quando il nuovo amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, decise che il cane a sei zampe avrebbe sborsato 625 milioni di euro. Il fronte si ruppe, altri accettarono di pagare e il progetto fu salvo.

Nel 2009 la Provincia pubblicò i risultati del primo studio idrogeologico sul sottosuolo della città, e quindi anche di Marghera. Ebbene quello studio svela, tra le tante e affascinanti cose, che le falde acquifere non sono regolari e nemmeno parallele tra di loro ma sono poste a varie profondità, e che la loro velocità è bassissima (una particella in un anno percorre dai 7 ai 21 metri).

L’allora assessore provinciale all’Ambiente, promotore dello studio, scrisse una lettera a due Ministeri, alle istituzioni locali, a Porto, Arpav, Icram e Apat. E riuscì così a bloccare il progetto di un ulteriore “grande muraglia” alle spalle di Porto Marghera, per chiuderla in un immenso recinto, che sarebbe costato un altro miliardo e, soprattutto, avrebbe mandato sott’acqua tutta Mestre. Da Villa sostenne che sarebbe stata sufficiente una molto più economica rete di pozzi, praticamente quella che le aziende avevano proposto dieci anni prima. La prima “grande muraglia” (che già da sola procura parecchi problenmi idraulici a Porto Marghera), però, era ormai fatta.

(e.t.)

 

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