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Che fine ha fatto e che progetti ha l’ex presidente di Mantovani travolto dalla Retata Storica?

Il Gazzettino ha cercato di scoprirlo

Che fine ha fatto Piergiorgio Baita, il genio del male, deus ex machina del Sistema Mose? È vero che è tornato in campo con una sua società? E cosa pensa della conclusione dell’inchiesta sulle dighe mobili veneziane? Il Gazzettino ha cercato di scoprirlo. Non è stato facile: benché la vicenda giudiziaria sia in larga parte conclusa e la gran parte dei protagonisti abbia patteggiato una pena con la Procura, Baita non rilascia interviste e non ama parlare con i giornalisti. La vicenda Mose occupa però ancora molte delle sue riflessioni. E da esse scaturiscono opinioni, domande e persino l’idea di scrivere un libro. Come raccontiamo in queste pagine.

 

LAVORO – Richieste di consulenza ma nega di aver creato nuove società

IL POTERE – In laguna pochi non hanno ricevuto soldi dal Consorzio Venezia Nuova

PERSONAGGIO – Non rilascia interviste ma il regista del Sistema Mose non è in pensione

AUTORE – Ha un’ambizione: scrivere un manuale anti-corruzione

TEMPO LIBERO – Coltiva pomodori e riflette sugli esiti dell’inchiesta veneziana

IL PRECEDENTE – Piergiorgio Baita in aula nel 1994 per il processo della prima Tangentopoli veneta

Il “diavolo” coltiva pomodori. E pensa. E si arrabbia perché quel che è stato raccontato è, a suo dire, solo una parte del sistema Mose. I giornali si sono fatti fuorviare dallo specchietto per le allodole della politica, dice. Certo che il nome di Galan “tira”, ovvio che quando si parla di ministri e sottosegretari, la gente legge con voracità, ma è sfuggita all’attenzione dell’opinione pubblica una parte importante. Anzi, la parte più importante, che è quella che riguarda i grand commis di Stato. E cioè i funzionari, i grandi burocrati, quelli che erano parte integrante e indispensabile, loro sì, del sistema corruttivo del Mose.

Altro che i politici. I politici sono una variabile ininfluente e avranno incassato sì e no un quarto delle mazzette che sono state pagate, il resto è finito nella tasche di chi decide sul serio. E cioè di chi è a capo di un ministero o di un assessorato regionale e resta sempre lì, fisso, mentre i ministri e gli assessori cambiano.

Piergiorgio Baita, il “diavolo” dello scandalo Mose, non smette di pensare al fatto che lo hanno dipinto come il genio del male, il corruttore dei corruttori, mentre tira un filo a piombo tra una “gombina” e l’altra, toglie le erbacce e guarda crescere i cavoli e i carciofi, mentre consulta il calendario di Frate Indovino per vedere quando seminare i pomodori. Cirio e ciliegino, piccadilly e cuore di bue. Li pianta ad una settimana di distanza uno dall’altro, così l’orto non viene invaso dalla “buttata” improvvisa di pomodori che maturano tutti nello stesso periodo. Centellina i suoi interventi, scruta il tempo, parla con le piante. E ragiona. Solo i suoi amici più cari sanno che Baita è uno che ha le mani d’oro – ironie a parte – e che ha passato i domiciliari a pitturare casa e a rifare l’orto, che è la sua grande passione. Gli piace lavorare in casa e ancor di più nell’orto, si rilassa e pensa.

Non parla con i giornali, rifiuta tutte le interviste, ma risponde volentieri a chi lo ferma al bar o davanti all’edicola. E poi si confessa con quella ristretta cerchia di amici che gli sono rimasti amici, si confida su quel che vorrebbe fare e siccome un suo amico, senza tradire il mandato, pensa che sia utile far uscire allo scoperto il Baita-pensiero, utile a chiarire quel che resta da chiarire, ecco un riassunto di quel che ha pensato e detto Baita in questi mesi passati in silenzio dopo il patteggiamento per reati fiscali.

Intanto Baita dice a tutti di essere in pensione, racconta l’amico, ma non credo che abbia intenzione di starsene con le mani in mano per molto tempo ancora. Non è vero che ha messo in piedi una società con moglie e figlio, la Studio Impresa srl, che si occupa di pannelli fonoassorbenti. Le voci nascono da una banale visura camerale. La società esiste, è intestata a moglie e figlio, ma non opera e comunque lui non c’entra niente. Quel che nessuno sa, invece, è che qualcuno ancora lo cerca per consulenze sul project financing.

E dunque, consulenze a parte, che cosa sta facendo esattamente in questo momento Piergiorgio Baita?

 

IL MANUALE ANTI-CORRUZIONE

Sta scrivendo il manuale dell’appalto perfetto, cioè dell’appalto anti-corruzione. Sul serio?
Certo, se non sa lui come fare… Fossimo in America, uno così, che è stato il più abile di tutti – nel male – lo assumerebbero al ministero della lotta alla corruzione, gli darebbero una cattedra all’università o gli farebbero fare corsi per finanzieri e funzionari pubblici. Perché lui i trucchi li conosce tutti. Alcuni li ha imparati, molti li ha inventati. E dunque Baita sa perfettamente come si pilota un appalto e come un appaltino diventa un appaltone. Il punto nodale – secondo Baita – è che la repressione non serve a niente, inasprire le pene non porta ad alcun risultato, bisogna cambiare il meccanismo degli appalti. L’ha spiegata così ad una cena tra amici. Ha detto che l’errore sta nel focalizzare l’attenzione sulla questione del controllo pubblico dell’opera. Invece il metodo giusto è il controllo pubblico sul servizio che viene offerto grazie a quell’opera.

Allo Stato non deve interessare che siringa utilizzo per fare l’iniezione – ha sintetizzato Baita – Deve interessargli quante persone vaccino contro l’influenza e mi deve pagare per quante ne vaccino. Nel caso del Mose, per capirci, secondo Baita lo Stato non doveva mettersi nell’ordine di idee di andare a vedere come veniva costruita l’opera. Una volta scelto il progetto, doveva dire: ti pago solo se l’opera funziona. Baita ha raccontato ai magistrati di essersi scontrato con Mazzacurati sulla questione della gestione, infatti. Secondo lui bisognava fare, contemporaneamente all’appalto per i cantieri, anche quello per la gestione del Mose. Il gestore dell’opera deve poter discutere con il costruttore, altrimenti poi succede – succederà, secondo Baita – che il gestore arriva e inizia a dire che le lampadine che sono state messe non sono quelle giuste, che il cavo da 3 pollici doveva essere da 5 pollici. E siccome il gestore si trova l’opera già pronta, dirà che è in grado di gestire lo stesso l’impianto, ma che, certo, costa di più.

 

IL MOSE? ALTRI DUE ANNI

E a chi gli chiede quanto manchi alla fine del Mose, Baita conteggia che ci vogliono altri due anni, due anni e mezzo perché è stata completata solamente la bocca di porto del Lido, ma solo nella parte strutturale, mentre mancano ancora le infrastrutture vere e proprie e cioè tutti i comandi e gli apparati che servono a far funzionare le paratoie. Vuol dire che del Mose è stato montato l’hardware e neanche tutto, mentre manca ancora il software. Da qui in poi par di capire che ci dovrebbe essere un controllo serrato sul software proprio per non trovarsi nelle condizioni di avere in mano un’opera che funziona perfettamente, su questo Baita non ha alcun dubbio, ma che è costosissima.

Piergiorgio Baita la spiega così: io posso costruire una macchina che oggi costa tanto e domani consuma poco, oppure posso costruire un’opera che costa tanto oggi e che consuma tanto domani, chiaro? L’interesse pubblico dovrebbe essere quello di avere in mano una macchina che magari costa di più oggi, ma è risparmiosa domani, sull’utilizzo e la manutenzione. Mazzacurati aveva tutto l’interesse, proprio perché contava di tenersi la gestione del Mose, a costruire invece un’opera che costasse tanto anche nella fase dell’esercizio e della manutenzione. Ecco perché ha bloccato Baita quando il presidente di Mantovani ha proposto di fare la gara di gestione subito, mentre si costruiva. Qui doveva intervenire la politica, a chiarire i ruoli e le competenze. E invece il caso Mose dimostra – secondo Baita – come siano le imprese a comandare. Anche sulla politica. Le imprese che possono comandare a bacchetta l’assessore o il ministro perché lo tengono per la borsa, ma che devono fare i conti con i funzionari pubblici. Che sono i “casellanti” degli appalti, quelli che alzano o abbassano la sbarra mentre stai lavorando e che ti bloccano i finanziamenti, intervengono in corso d’opera. Ai funzionari non interessa chi vince l’appalto, interessa il “mentre” si realizza l’opera. Son lì che iniziano a mettere i bastoni fra le ruote. Ed è a quel punto che ti tocca dargli consulenze e che ti tocca nominarli collaudatori.

Tanto per dirne una, che c’entra un Magistrato alle acque come Maria Giovanna Piva con il collaudo dell’ospedale nuovo di Mestre? E un altro Magistrato alle acque, quel Patrizio Cuccioletta che era sul libro paga del Consorzio Venezia Nuova, che ci faceva nel Comitato tecnico scientifico che ha approvato la Pedemontana?

 

IL RUOLO DELLA MINUTILLO

Grand commis a parte, Baita ha spiegato più volte agli amici che, secondo lui, la Procura ha creduto troppo a Claudia Minutillo, l’ex segretaria di Galan. La Minutillo, spiega, non era stata scelta per la sua genialità. Era stata assunta al Consorzio su richiesta di Lia Sartori, l’europarlamentare oggi in attesa di processo per finanziamento illecito ai partiti. Mazzacurati aveva piazzato la Minutillo alla Thetis solo per fare un piacere alla Sartori, e cioè a Galan il quale temeva che l’ex segretaria, licenziata in tronco, rivelasse cose inopportune. Ma siccome a Thetis guadagnava troppo poco e voleva 250 mila euro netti all’anno, Chisso aveva chiesto a Baita di assumerla come amministratore delegato di Adria Infrastrutture. Ma non era operativa, non faceva niente e non capiva molto bene quel che succedeva. Ad esempio sui project avrebbe detto una cosa che non aveva senso e cioè che Baita aveva messo a disposizione 600 mila euro per “incoraggiare” i project. Stando alle spiegazioni fornite anche ai magistrati da Baita, la Minutillo non ha capito che quei 600mila euro erano l’equity e cioè una specie di caparra che bisogna versare se si vuole concorrere al project. Ma, argomenta Baita, siccome Claudia Minutillo ha il merito di aver aiutato la Procura ad arrivare ai politici, viene premiata con una credibilità su tutto il fronte.

E non c’è solo questo. Baita continua a stupirsi che la società veneziana abbia fatto finta di niente di fronte al fiume di denaro pubblico che Mazzacurati ha convogliato verso tanti privati che nulla c’entravano con il Mose. Secondo Baita quel che non è stato ancora capito fino in fondo è che il sistema Mose era una macchina del consenso, prima di tutto, non un sistema corruttivo sic et simpliciter. Mazzacurati pagava tutti: pochi soldi ai politici, tanti ai funzionari “controllori”, tantissimi alla città. E le anime belle che fanno finta di niente, secondo Baita dovrebbero spiegare prima di tutto a se stesse che cosa centri il Mose con il restauro di un convento o di un seminario o con una squadra di calcio. Quel che Baita si lascia sfuggire negli sfoghi che ha con gli amici è che a Venezia sono ben pochi quelli che possono dire di non aver avuto a che fare con i soldi del Consorzio. Mazzacurati era considerato alla stregua di una istituzione pubblica e c’era la processione alla sua porta. E se si chiede a Baita come sia stato messo in piedi un meccanismo così sofisticato, Baita risponde che il meccanismo è stato messo in piedi un po’ alla volta, anno dopo anno e che non era possibile rompere questo meccanismo perchè voleva dire tagliarsi fuori e non lavorare più. E lui aveva la responsabilità di 700 famiglie che lavoravano per Mantovani. Perché era chiaro che il sistema Mose andava bene a tutti e tutti facevano finta di nulla. Nessuno si è mai preoccupato che lo stipendio medio al Consorzio fosse di gran lunga superiore ai 100mila euro l’anno, nessuno ha mai avuto da ridire su studi e consulenze, su libri e partecipazioni al Festival del cinema del Lido. Come è possibile? A tutti è parso normale che il Consorzio, che pure viveva esclusivamente di soldi pubblici, facesse l’editore e il produttore cinematografico, si occupasse di convegni e di far fare giri in elicottero sui cantieri. E a tutti andava bene che di tutto questo si occupasse solo Mazzacurati. Il quale non ha mai voluto cedere un grammo del suo potere.

 

QUELLE COOP ROSSE

Baita racconta anche che la Mantovani era entrata nel Consorzio Venezia Nuova staccando un assegno da 72 milioni di euro, mentre il Consorzio Cooperative Costruttori di Bologna – 240 imprese associate e 20 mila dipendenti – invece era entrato a far parte del Consorzio senza versare un centesimo. Ma bisogna rileggere i suoi verbali di interrogatorio per capirne di più. In uno racconta, con un tocco di ironia, di non aver capito bene che cosa fosse successo dal momento che le coop rosse c’erano già dentro il Consorzio, con la Coveco. “Il Coveco è storicamente un associato del Consorzio Venezia Nuova, mentre il Ccc è entrato più recentemente e cioè quando Antonio Bargone era sottosegretario ai Lavori pubblici”, mette a verbale Baita. Bargone è stato al Governo dal 1996 al 2001 con Prodi, D’Alema e Amato, poi è diventato presidente della Società Austrada Tirrenica. Secondo Baita “dopo il suo intervento all’interno del Consorzio non si capiva chi dovesse rappresentare le cooperative, se il Ccc e cioè Omer Degli Esposti o il Coveco di Savioli. La mediazione fu favorita da Mazzacurati il quale decise di lasciare un veneto e cioè Pio Savioli a rappresentare le coop rosse nel Consorzio perché in grado di fare da equilibrio tra i due consorzi e le varie parti politiche che rappresentano, perché il Coveco fa riferimento ad una certa sfera della sinistra e il Ccc ad un’altra”. Ma il Coveco di Pio Savioli è finito dritto nell’inchiesta veneziana sul Mose mentre il Ccc di Esposti no. Ma chi è Degli Esposti? Il suo nome salta fuori nell’inchiesta sul cosiddetto sistema Sesto di Filippo Penati, ex braccio destro di Pierluigi Bersani, nonché ex sindaco di Sesto San Giovanni ed ex presidente della Provincia di Milano. Penati è l’uomo che giura di non voler approfittare della prescrizione che gli porterà in dote la legge anticorruzione del ministro Severino. Salvo ripensarci un attimo dopo. Ebbene, con lui nell’inchiesta sulla Falck era finito anche il vicepresidente del Consorzio Cooperative Costruttori. E, con degli Esposti l’inchiesta aveva toccato pure Roberto De Santis, primo socio di D’Alema nell’acquisto della barca a vela Ikarus. Baita era convinto che la Ccc di Bologna avrebbe portato gli investigatori a Roma, invece non è andata così. Almeno per ora.

 

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