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Gazzettino – Consiglieri arrestati, ma retribuiti

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

10

lug

2014

MOSE – La Giunta per le autorizzazioni vota la richiesta di arresto. L’ex governatore: non ho potuto difendermi

Galan, è il giorno del giudizio

Intanto si scopre che a Chisso e Marchese, i due consiglieri regionali arrestati e sospesi, è garantito l’80% dello stipendio

IL VOTO – Per Giancarlo Galan oggi è il giorno del giudizio: la giunta per le autorizzazioni si esprime sulla richiesta di arresto. L’ex governatore intanto accusa: «Non ho potuto difendermi».

IL RIFIUTO «Chiedo ai Pm di essere sentito: è un mio diritto, ma non lo fanno»

DIFESA ALL’ATTACCO «Nell’ottobre dello scorso anno non gli fu notificata la proroga delle indagini»

GIORNO DECISIVO – La Giunta della Camera oggi vota sulla richiesta di arresto dell’ex governatore

MONTECITORIO – I numeri sono sfavorevoli: in 13 già per le manette

ROMA – Sulla carta i pareri favorevoli all’arresto di Galan sono prevalenti nella Giunta delle autorizzazioni. Al di là della proposta del relatore Mariano Rabino (Scelta Civica) l’orientamento è per l’insussistenza di ogni ipotesi di “fumus persecutionis” nei confronti dell’ex Governatore veneto. A favore ci sono già 13 voti, sui 21 componenti della Giunta, ovvero i deputati del Pd e del Movimento Cinque Stelle che fanno blocco sulla stessa linea. Ieri Forza Italia ha giocato la carta delle nuove disposizioni contenute nel decreto sulla custodia cautelare, secondo cui non ci può essere carcere preventivo per gli imputati che rischiano una condanna fino a tre anni.

 

VILLA RODELLA – La casa dell’ex doge sui Colli Euganei iscritta come bene sequestrato

LO STIPENDIO – Per legge i consiglieri arrestati, come Chisso e Marchese, mantengono l’80% dell’indennità (oltre 5mila euro al mese) che viene dimezzata, invece, ai dirigenti.

VENETO Ai due dirigenti sospesi era stato invece dimezzato lo stipendio come previsto dal contratto

Consiglieri arrestati, ma retribuiti

A Chisso e Marchese l’80% dell’indennità: oltre 5mila euro al mese. Paga piena per i due sostituti

Due pesi, due misure? I fatti sono i seguenti: in Veneto i dipendenti regionali, anche se sono altolocati e ricoprono il ruolo di dirigenti, quando vanno in galera vengono immediatamente sospesi dall’incarico ed è una sospensione che costa loro cara: lo stipendio viene dimezzato. Anche i politici che finiscono in gattabuia ci rimettono dal punto di vista economico, ma meno: continuano a prendere l’80 per cento dell’indennità di carica. I veneti, in compenso, pagano per tutti. Perché oltre alle indennità (ridotte, ma pur sempre sostanziose) dei consiglieri sospesi, devono pagare anche quelle (piene) dei consiglieri supplenti. Per farla breve: le buste paga dei politici a Palazzo Ferro Fini adesso non sono più 60, ma 62. E non si sa neanche per quanto tempo.
A Palazzo allargano le braccia: effetti della legge Severino, dicono. Trattasi della nuova normativa che ha esteso i casi di sospensione per gli amministratori locali coinvolti in procedimenti penali. Una volta la sospensione scattava per vicende di mafia. Adesso, con il decreto legislativo 235 del 2012, è estesa a più casi e per applicarla non si aspetta il giudizio e nemmeno la condanna: appena si finisce in carcere o agli arresti domiciliari o anche se c’è il più semplice obbligo di firma, si viene sospesi. In Regione Veneto è successo per quattro persone, due dipendenti e due consiglieri. Ma con effetti diversi dal punto di vista retributivo. e pure sostitutivo.
Immediatamente dopo l’arresto, i dirigenti Giovanni Artico e Giuseppe Fasiol sono stati sospesi dal governatore Luca Zaia. Che non li ha sostituiti: i rispettivi incarichi sono stati attribuiti ad altri colleghi. Successivamente Artico e Fasiol sono tornati liberi e sono rientrati al lavoro, ma durante il periodo della sospensione hanno avuto lo stipendio ridotto come stabilito dal contratto di lavoro (articolo 9: “al dirigente sospeso dal servizio sono corrisposti un’indennità alimentare pari al 50% dello stipendio tabellare, la retribuzione individuale di anzianità o il maturato economico annuo, ove spettante, e gli eventuali assegni familiari”.
Cosa succede invece per i consiglieri regionali? La legge Severino dice che nel periodo di sospensione i soggetti sospesi non sono computati al fine della verifica del numero legale, né per la determinazione di qualsivoglia quorum o maggioranza qualificata. Ma specifica: “Fatte salve le diverse specifiche discipline regionali”. E la specifica disciplina della Regione Veneto dice due cose: la prima è che i consiglieri sospesi devono prendere l’80% dell’indennità di carica e la seconda è che devono essere sostituiti dai supplenti. Più semplicemente: Renato Chisso (tuttora in carcere) e Giampietro Marchese (ora ai domiciliari) sono stati sospesi dalla carica di consigliere regionale lo scorso 4 luglio (un mese dopo gli arresti) con decreto del premier Matteo Renzi, notificato al consiglio regionale per il tramite della Prefettura martedì scorso. Per il periodo della sospensione, in base a alla legge regionale 5/1997, Chisso e Marchese percepiranno “un assegno pari all’indennità di carica lorda ridotta di un quinto”. Non avranno l’indennità di funzione e nemmeno il rimborso spese, ma solo i quattro quinti dello stipendio base lordo di 6.600 euro e cioè 5.280 euro al mese. I loro “supplenti”, Francesco Piccolo e Alessio Alessandrini, subentrati ieri, avranno invece lo stipendio pieno. Ma c’era bisogno dei supplenti? Forse no, ma la norma (la legge statale 108/68 da cui dicende la legge regionale 5/2012) dice di sì. E così a Palazzo Ferro Fini si pagano 62 stipendi con 60 consiglieri effettivi.
Ps: anche a Montecitorio i deputati arrestati continuano a prendere l’indennità. Ieri i grillini hanno protestato, ma la legge è chiara.

Alda Vanzan

 

Veneto Banca, un faro sui conti degli indagati

TREVISO – (mzan) Da giorni in Veneto Banca è in corso un’accurata ricerca negli archivi. Mission: individuare ogni operazione intrattenuta con società o persone coinvolte nello scandalo Mose. «Con il presidente del collegio sindacale – spiega il presidente della Popolare montebellunese, Francesco Favotto – ho chiesto al servizio “audit” una ricognizione analitica di tutti i rapporti attivati da soggetti citati negli atti giudiziari e negli articoli giornalistici». Una forma di tutela preventiva. L’istituto trevigiano è socio di Palladio, la holding del finanziere Roberto Meneguzzo, arrestato. E il nome di Veneto Banca era stato indicato anche per alcuni prestiti all’ex governatore Galan.

 

IL RIESAME – I giudici spiegano perché hanno rimesso in libertà l’ingegner Fasiol (Regione Veneto): quella di Baita e Minutillo era più un’aspettativa che un’intesa vera e propria

«Pensavano di corrompere il funzionario con una nomina prestigiosa»

MESTRE – Non si sentivano solo onnipotenti, come dice Claudia Minutillo. Vivevano anche in un mondo in cui l’onestà semplicemente non era prevista. Un mondo in cui uomini e donne si dividevano tra coloro che erano già corrotti e quelli che lo sarebbero stati. Questo si capisce leggendo l’ordinanza del Tribunale del riesame che ha scarcerato il funzionario regionale Giuseppe Fasiol. Un provvedimento che spiega meglio di qualsiasi altro come funzionava il mondo “alla Baita”. Sono Piergiorgio Baita e Claudia Minutillo infatti che incastrano l’ing. Fasiol. La Minutillo spiega alla Procura che Silvano Vernizzi, il funzionario regionale alle Infrastrutture più alto in grado, era mal visto da Baita, che lo considerava un nemico. Dunque, la Mantovani sceglie di investire su Giuseppe Fasiol come interlocutore privilegiato offrendogli l’incarico di collaudatore del Mose e facendogli capire che «sarebbe stato lui la persona di riferimento ed il futuro segretario regionale alle Infrastrutture», una volta tolto di mezzo Vernizzi. Fin qui le accuse. Che il Tribunale del riesame smonta, facendo passare Fasiol dal carcere alla libertà – anche se resta indagato. Perchè, scrive il Riesame «analizzando il tenore degli interrogatori resi da Minutillo e Baita si osserva che le espressioni usate da entrambi denotano non tanto un intervenuto e operante accordo corruttivo intercorso tra il Gruppo Mantovani ed il funzionario Fasiol quanto piuttosto il radicato convincimento soggettivo dei predetti Baita e Minutillo (definibile più come una aspettativa che altro) secondo cui il Gruppo Mantovani conferendo una utilità del calibro della nomina in commissione collaudo Mose al Fasiol stesso, lo avrebbe per forza di cose “fidelizzato”, per usare la terminologia della Minutillo. Ossia, in altri termini se lo sarebbe definitivamente e stabilmente ingraziato pro futuro». Insomma i due – Baita e Minutillo – hanno fatto un investimento su Fasiol, ma il patto scellerato non è mai stato siglato – dice il Riesame. Almeno non da Fasiol, anche se gli altri due erano convinti che se lo sarebbero comprato come avevano comprato tutti, fino a quel momento. Un delirio di onnipotenza, questo c’è scritto nelle righe dell’Ordinanza che scarcera Fasiol. E questa scarcerazione è però anche la prova provata che i giudici veneziani – checchè se ne dica – non sono affatto appiattiti sulle decisioni della Procura.
La Procura aveva chiesto e ottenuto dal Gip l’arresto di Fasiol. Il Riesame lo ha rimandato a casa: “Gli indizi di colpevolezza ci sono, ma non sono gravi”. Significa che i fatti si prestano ad interpretazioni diverse e per ora il riesame ha ha detto che non sono campati in aria tutti i dubbi avanzati dall’avv. Marco Vassallo che difende Fasiol. Il caso Fasiol però va letto anche all’incontrario e cioè che l’impianto accusatorio della Procura regge più che mai, anche quando subisce qualche colpetto sulle posizioni minori, quello delle “scartine”. E dunque quando il Riesame dice che uno deve stare in galera, vuol dire che gli indizi sono una caterva. Dunque, in una maxi inchiesta come quella ci sta anche il caso Fasiol, che permette di constatare che esiste un evidente bilanciamento tra Procura e Tribunale del riesame. Non solo, risulta evidente proprio dal caso Fasiol che Baita e Minutillo vivevano in un mondo in cui si dava per scontato che con i soldi si potesse comprare tutti. O quasi perchè, come ricorda Giovanni Mazzacurati parlando dell’ing. Setaro, per 9 anni Magistrato alle acque, soldi non ne ha presi. Come mai? «Alcuni non li vogliono proprio».

M. D.

 

SCANDALO MOSE Al polo educativo voluto da Scola è arrivato negli anni oltre un milione e mezzo

Il patriarca “chiude” col Consorzio

Moraglia mette la parola fine al finanziamento del Marcianum da parte del Cvn: «Serve un esame di coscienza»

IL RETROSCENA – E il Patriarca disse: basta soldi dal Consorzio

Il Patriarca: basta soldi dal Consorzio Venezia Nuova. Francesco Moraglia ha scritto una lettera al presidente Fabris con la quale segna la fine dei rapporti tra Cvn e Marcianum.

VENEZIA Una lettera segna la fine dei rapporti tra Cvn e Marcianum. Resta invece Mantovani

Il Patriarca: «Servono un serio esame di coscienza e segnali di novità nei rapporti con le istituzioni civili»

SPONSOR E’ stato il principale finanziatore della Fondazione: oltre un milione e mezzo

Moraglia dice addio al Consorzio

La lettera con il sigillo patriarcale è arrivata giusto giusto l’altro giorno. Ed è una missiva che in qualche modo racconta la fine di un’epoca. La firma è autorevole: monsignor Francesco Moraglia. E altrettanto importante è il destinatario: Mauro Fabris, presidente del Consorzio Venezia Nuova.
In mezzo c’è un “addio” consensuale in attesa – ognuno per proprio conto – di ritrovarsi lungo la strada, ma secondo altre formule. Così, il Patriarca di Venezia, nella sua veste di Gran Cancelliere, ha deciso di interrompere il rapporto di collaborazione, ma soprattutto di finanziamento con il Consorzio Venezia Nuova in merito alla Fondazione Marcianum, il “think tank” creato nel 2006 e poi sviluppato a partire dal 2008 dall’allora Patriarca, cardinale Angelo Scola. Una decisione pesante anche perchè il Cvn è stato per anni, sotto la presidenza di Giovanni Mazzacurati, il principale socio “sostenitore” della Fondazione con cospicui stanziamenti che, secondo calcoli approssimativi, può aggirarsi verosimilmente attorno al milione e mezzo di euro in più anni.
Infatti, secondo una sommaria ricostruzione, se nel 2008, l’ammontare della cifra corrisposta al Marcianum da parte del Consorzio ammontava per quell’anno a 250 mila euro, nel periodo successivo dal 2009 al 2013, i soldi offerti sono stati all’incirca 300 mila ogni anno. Insomma, un bel gruzzoletto per poter sviluppare, organizzare e svolgere attività di ricerca, di studio e di organizzazione del pensiero.
«Occorre un serio esame di coscienza» scrive Moraglia al Cvn sottolineando peraltro la necessità di come il «contesto attuale richieda segnali di novità nell’intendere e vivere i rapporti tra le istituzioni civili e quelle ecclesiali».
Una volontà chiara di distinguere i due “mondi” che per molti anni sono andati a braccetto indicando la necessità di ripensare il rapporto tra Marcianum e Cvn. «Un’impostazione che non posso che condividere – sottolinea il presidente Fabris – anche perchè con il Patriarca abbiamo fin dal primo momento ritenuto che fossimo entrambi eredi di una situazione che ci siamo trovati a gestire». E mentre si risolve il rapporto tra Marcianum e Cvn, non c’è dubbio che altre questioni rimangono sul tappeto come quello del rapporto con gli altri soci cosiddetti “sostenitori” del Marcianum tra i quali figura la “Mantovani” che ebbe in Piergiorgio Baita, il suo padre-padrone, finito nell’occhio del ciclone nell’inchiesta Mose. Un altro “pezzo ingombrante” nell’assetto generale della Fondazione Marcianum e che certamente è all’attenzione del Patriarca.
C’è poi il rapporto con la Regione Veneto, per ora non in discussione, che nel corso degli anni ha sostenuto con energia la Fondazione Marcianum. E qui si deve ritornare alla giunta Galan quando nel 2003 giungono i primi 200 mila euro con una successiva oscillazione di cifre negli anni successivi (100 mila nel 2004; 180 mila nel 2005; 190 mila nel 2006; 250 mila nel 2007, nel 2008 e nel 2009 per un totale nel tempo di oltre un milione). Ma non è finita qui. I finanziamenti sono proseguiti anche negli anni successivi, sotto l’amministrazione Zaia con un impegno di spesa annuale dal 2010 al 2013, di 250 mila euro per una somma complessiva attorno al milione di euro.

Paolo Navarro Dina

 

Responsabilità penali ma anche politiche

di Gianluca Amadori

A leggere le cronache di questi giorni (e relativi commenti) sembra esistere soltanto la responsabilità penale. Un fatto diventa censurabile unicamente se viene aperta un’inchiesta da parte della Procura. E, parallelamente, se l’inchiesta penale viene archiviata, qualsiasi comportamente acquisisce una “patente” di correttezza. Ma non è così. Non può essere così. Non tutto (fortunatamente) ha rilievo penale. Ci sono, però, comportamenti che ugualmente sono (e dovrebbero) essere censurabili (e censurati), almeno sul piano politico e, perché no, etico. Due esempi, recentissimi, arrivano dall’inchiesta sul cosiddetto “sistema Mose” e riguardano due esponenti politici di primo piano coinvolti, anche se con profili e accuse ben diverse.

Per un momento dimentichiamo le accuse penali – tanto più che entrambi vanno considerati innocenti fino a sentenza definitiva – e proviamo a concentrarci sul piano strettamente politico.
Che valutazione dare di un presidente della Regione che aveva acquisito a titolo personale quote della società che si proponeva come partner principale della stessa amministrazione regionale per realizzare opere in project financing? Giancarlo Galan forse riuscirà a dimostrare di non essere un corrotto, ma come può giustificare ai cittadini quell’interesse privato sicuramente incompatibile con la carica pubblica? Nella sua appassionata difesa ha spiegato di non aver mai fatto affari tramite quella società: giustificazione che la dice lunga sul modo di intendere (e di mescolare) pubblico e privato. Dovrebbe bastare questa circostanza – ammessa dallo stesso Galan nella memoria presentata al Parlamento – per formulare una pesante riserva sul suo comportamento politico.
E cosa dire del sindaco dimissionario di Venezia? Di Giorgio Orsoni, stimato e capace professionista, sorprendono le motivazioni di quel finanziamento elettorale da lui sollecitato (pur credendolo regolare) al presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati. Lo stesso sindaco ha ammesso davanti ai pubblici ministeri di aver percepito l’inopportunità di ottenere contributi da un soggetto coinvolto in opere così importanti in città: ciò nonostante, cedendo alle pressioni del Pd, si decise di rivolgersi all’amico Mazzacurati.
Se non lo avesse fatto, ha spiegato, avrebbe dovuto provvedere di tasca propria alle spese elettorali. Sul fronte penale il sindaco riuscirà forse a dimostrare la sua estraneità alle accuse. Nel frattempo, sul piano politico non ne esce bene. Tanto più se si considera che il Cvn, in quanto soggetto che gestisce denaro pubblico, per legge non può finanziare esponenti politici.
Del livello politico, però, pare non interessarsi nessuno. Tutti preferiscono aspettare l’inchiesta penale di turno per esprimere valutazioni sul (presunto) amministratore infedele, e al tempo stesso per contestare ai magistrati indebite ingerenze. È uno dei motivi per cui la politica sta perdendo credibilità e autorevolezza: perché dimostra di non essere in grado di rivendicare (e mettere in atto) quei necessari valori di trasparenza, pulizia, correttezza nella gestione della cosa pubblica.

 

LA REPLICA – Ecco perché gli avvocati Longo e Rubini rinunciarono alla difesa di Baita

Egregio Direttore,
con riferimento all’articolo a firma di Maurizio Dianese pubblicato il 6 luglio u.s. dal titolo: “Baita: volevano che mi operassi per rinviare l’interrogatorio”, nel prendere atto delle dichiarazioni rese dall’ing. Baita nel corso dell’interrogatorio del 17 giugno 2013 al Pubblico Ministero, ritengo doveroso, nell’interesse degli avvocati Piero Longo e Paola Rubini, puntualizzare quanto segue:
– l’unico incarico conferito ed espletato dai consulenti della difesa consisteva nella verifica della compatibilità con il regime carcerario delle condizioni di salute dell’ing. Baita affetto da cardiopatia ipertensiva con possibile evoluzione ipocinetica e probabile ischemia coronarica e non certo quanto affermato dall’ing. Baita stesso;
– tale situazione clinica era stata segnalata ai difensori dal cardiologo di fiducia dell’ing. Baita il quale era stato visitato poco prima di essere arrestato il 28 febbraio 2013 e per tale ragione era già stato programmato un check up, non potuto effettuare a causa del sopravvenuto arresto, atto a slatentizzare una probabile ischemia coronarica, come peraltro risulta dalla documentazione agli atti del fascicolo processuale;
– la consulenza tecnica redatta su richiesta della difesa escludeva, come comunicato all’interessato dagli avvocati Longo e Rubini, l’incompatibilità con il regime carcerario e consigliava unicamente dei controlli clinici atti ad escludere una coesistente patologia ostruttiva a livello coronarico o carotideo, come già aveva segnalato il cardiologo di fiducia dell’ing. Baita;
– ciò stante, in occasione del colloquio in carcere del 23 aprile 2013, gli avvocati Longo e Rubini prospettarono all’ing. Baita l’opportunità di sottoporsi ad interrogatorio avanti il Pubblico Ministero e l’ing. Baita fu d’accordo;
– l’interrogatorio fu quindi immediatamente concordato con il Pubblico Ministero Dr. Ancilotto per il successivo 10 maggio;
– effettivamente in tale data l’ing. Baita venne sentito alla presenza dei suoi difensori i quali all’esito, comunicarono al proprio assistito l’indisponibilità del Pubblico Ministero, insoddisfatto dei contenuti, a dare parere favorevole ad un affievolimento della misura carceraria allora in atto;
– di comune accordo con l’ing. Baita, quindi, si decise di chiedere un ulteriore interrogatorio al Pubblico Ministero, concordato con il De. Ancilotto per il successivo 24 maggio 2013;
– due giorni prima di tale incombente, come detto deciso in accordo con i difensori, l’ing. Baita comunicò all’avv. Rubini la sua intenzione di mutare strategia difensiva e di voler collaborare con l’Autorità Giudiziaria, chiamando in correità taluni soggetti che, come a lui ben noto, erano da anni tutelati dall’avv. Longo con la collaborazione dell’avv. Rubini, il che ebbe come conseguenza ineludibile, a termini di codice deontologico, la rinuncia al mandato defensionale degli stessi.
Questo e non altro il succedersi e la consistenza dei fatti: tutto il resto, in primis le dichiarazioni del Baita, che, solo in ragione del pregresso rapporto professionale e del suo comprensibile stato di prostrazione psicologica per la detenzione allora in atto, non meritano azioni giudiziarie, ma non ultime le illazioni sottintese ai titoli (in prima pagina ed a pagina 2) nonchè al contenuto dell’articolo di Maurizio Dianese, sono pura e interessata fantasia.
Distinti saluti.

Avv. Gianni Morrone

 

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LARGHE INTESE SUGLI AFFARI – Nei verbali di Venezia ombre sulla grande opera da 10 miliardi con cui Bonsignore (Ncd) ha messo d’accordo destra e sinistra

di Giorgio Meletti, “Il Fatto Quotidiano”, 9 lug. 2014

Un fantasma si aggira per l’inchiesta sul Mose: è l’affare della nuova autostrada Orte-Mestre, nota anche come Nuova Romea. Costerà quasi dieci miliardi di euro, e dagli interrogatori si capisce che è il vero affare che calamita le attenzioni. Claudia Minutillo, ex segretaria del governatore veneto Giancarlo Galan, passata come manager al gruppo Mantovani, racconta che il suo nuovo capo, Piergiorgio Baita, non pensava ad altro. Quando li arrestano, nella primavera 2013, non c’è ancora il sospirato via libera del governo, che arriverà l’8 novembre 2013, in una riunione del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) presieduta dal premier Enrico Letta. Il 24 aprile 2012 Minutillo chiama Baita per parlare della riunione Cipe di tre giorni dopo. Sintesi giudiziaria della chiamata: “Baita voleva sapere se ci fosse la Romea e comunque chiederà ad Albanese… omissis…”.

Bisogna tirare il filo per vedere dove porta. Gioacchino Albanese, detto Nino, era già famoso negli anni 70 come braccio destro di Eugenio Cefis, poi è stato manager dell’Eni, coinvolto nello scandalo Eni-Petromin (1980), e nel 1981 è risultato iscritto alla loggia P2 con la tessera numero 913. Oggi ha 82 anni e ricopre ancora un ruolo decisivo: è amministratore delegato della Ilia Spa di Genova, promotrice della Orte-Mestre. Si tratta di un project financing, il modo più moderno di scavare buche nei conti dello Stato: in apparenza il privato costruisce un’opera pubblica a sue spese e recupera l’investimento incassando i pedaggi, in questo caso per 49 anni.

Per spiegare ai pm i rapporti corruttivi tra Baita e Galan, Minutillo tiene una lezione sul project financing degna del più radicale dei No-Tav. Conferma infatti che è la miglior maniera di evitare il fastidio di una gara d’appalto, ma che ovviamente prima di avanzare una proposta bisogna essere certi che il politico la inserisca nelle opere di “interesse pubblico”: “La presentazione di un project financing ha un costo significativo per non dire rilevante, motivo per cui se non si ha la sicurezza di avere dei contraddittori disponibili si rischia solo di gettare i costi dello stesso”. I politici spiega Minutillo, giustificheranno l’entusiasmo un po’ sospetto “dicendo che a loro l’unico interesse vero era comunque fare l’opera, questa è la cosa che dicono sempre”. Il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli (indagato per corruzione nello scandalo Mose) il 23 febbraio 2010 ha benedetto la Orte-Mestre come “fondamentale per la piccola e media imprenditoria”, mentre Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture, a novembre 2013 saluta il via libera del Cipe a “un asse viario fondamentale per l’Italia, completamente coperto da capitali privati”. In verità, dei 9,8 miliardi lo Stato ce ne metterà 1,9 sotto forma di sconti fiscali alle imprese costruttrici, grazie ad apposita legge del governo Monti.

Il ministro dell’Economia dell’epoca, Fabrizio Saccomanni, era contrario. Baita soffriva. Minutillo spiega: “L’Economia, il Tesoro, si opponeva a questa cosa qua, quindi veniva… è stata rinviata più volte. Baita teneva i contatti con il dottor Albanese del gruppo di Bonsignore, e poi avevano dentro al ministero le persone”. Il capo di Albanese è Vito Bonsignore, ex andreottiano diventato imprenditore con la liquidazione da 2-300 milioni che gli dette Marcellino Gavio per farlo fuori dall’Autostrada Milano-Torino e legatissimo all’ex senatore Luigi Grillo e a Sergio Cattozzo i due uomini dell’Ncd arrestati a Milano nell’inchiesta Expo. Europarlamentare fino allo scorso 25 maggio, Bonsignore è stato insignito, durante Mani pulite, di una condanna definitiva a due anni per corruzione. Oggi è tra i fondatori del partito di Angelino Alfano e soprattutto di Lupi. Bonsignore ha buone amicizie. Il presidente della Ilia a cui il governo sta affidando l’autostrada da 10 miliardi è Giovanni Berneschi, momentaneamente agli arresti per lo scandalo della Carige, banca che supporta Bonsignore nella Orte-Mestre. Ma nessuno batte ciglio. Anzi. La delibera Cipe dell’8 novembre scorso è ancora segreta. Non è dato conoscere il piano economico-finanziario su cui si basa la previsione che i proventi del traffico ripagheranno l’opera. Sicuramente c’è una clausola secondo la quale ricavi inferiori al previsto comporteranno l’impegno dello Stato a pagare la differenza. Insomma, il rischio d’impresa è tutto a carico dei contribuenti, ed è per questo che delibere, piani e contratti con cui si impegnano miliardi pubblici non vengono pubblicati.

D’altra parte l’opera piace a tutti. All’inizio c’era un’Associazione Nuova Romea, presieduta da Pier Luigi Bersani, che si batteva per una nuova arteria tra Ravenna e Mestre, visto che la Romea era obsoleta e pericolosissima. C’era anche una società, che girava intorno alle coop rosse (Cmc di Ravenna e Ccc di Bologna su tutte) e alla Mantovani di Baita, pronta a proporre il suo projectfinancing. Finché nel 2003 Bonsignore spiazza tutti con un progetto unico, da Orte a Mestre, passando per Cesena e Ravenna, che il ministro dell’epoca, Pietro Lunardi, subito accoglie. Il governatore dell’Emilia-Romagna,

Vasco Errani, che è di Ravenna, attacca: “La scelta delle opere da fare non è compito dei privati”. Ma poco tempo dopo lo stesso Errani si batterà come un leone per chiedere al governo lo sblocco del project financing della Ilia. Come mai?

Nella rissa Bonsignore e Lunardi sfoderano la loro abilità. Racconta Minutillo: “Furono bravissimi, misero subito d’accordo cinque presidenti di Regione”. L’intesa arriva nel 2005 e prevede lavoro per tutti: per la Mantovani nelle tratte venete, per le coop rosse in Emilia e via spartendo. Il 27 luglio 2005 l’Anas dà il via libera al progetto di Bonsignore. Due settimane prima il regista della Orte-Mestre aveva discusso con il suo amico Massimo D’Alema le modalità di partecipazione alla scalata alla Bnl della Unipol di Gianni Consorte. L’ex premier riferisce al manager presunto rosso: “Voleva dirmi… voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli hai chiesto di fare, oppure no [ridacchia]… Che voleva altre cose, diciamo… a latere su un tavolo politico. […] Ti volevo informare che io ho… ho regolato da parte mia”. I magistrati di Venezia stanno portando alla luce i contesti trasversali e opachi con cui la politica spartisce denaro pubblico tra le imprese amiche.

 

TANGENTI: il RIESAME

«Chisso asservito agli interessi del Consorzio»

«Chisso asservito agli interessi dei privati che lo pagavano». Ecco le motivazioni del Riesame.

«Chisso del tutto asservito agli interessi del Consorzio»

Così il Riesame ha rigettato la richiesta di scarcerazione: «Subordinazione totale»

E nei confronti del capo segretaria Casarin: «Concreta reiterazione del reato»

VENEZIA «Una subordinazione totale, al punto che non è il privato che si reca in Regione a fare le sue rimostranze ma è l’assessore che va nell’ufficio dell’imprenditore e qui viene accusato di inerzia e di scarso peso politico». E ancora. «Un asservimento delle sue funzioni agli interessi dei privati che lo pagavano». Così l’ex assessore regionale Renato Chisso per i giudici del Riesame di Venezia che, nei giorni scorsi, avevano respinto la richiesta di scarcerazione presentata dai suoi difensori. Così tanto e così male. Nelle motivazioni del Riesame- che avevano rigettato anche il ricorso presentato dal suo più stretto collaboratore, Enzo Casarin (gli unici due respinti) – l’ex assessore ne esce a pezzi. Secondo i giudici del Riesame «la gravità dei fatti, l’intensità del dolo e la pluralità delle singole dazioni succedutesi negli anni» rendono necessaria la misura della custodia in carcere, «l’unica in grado di impedire efficacemente la riterazione di simili episodi». «Una misura più attenuata non avrebbe uguale efficacia poichè verrebbe affidata per l’esecuzione a un soggetto di cui è stata sperimentato il continuo disprezzo della legge e l’ostinata inosservanza per le disposizione dell’autorità nè sussitono ragioni di ordine sanitario che ne impongano l’attuazione ». Renato Chisso, spiega ancora il Riesame presieduto da Angelo Risi, «rimane pur sempre consigliere in grado di continuare a mantenere condotte antigiuridiche aventi lo stesso rilievo e qualità di quelle commesse ». «Come si vede le dichiarazioni di Minutillo, Baita e Mazzacurati, pur divergenti su taluni particolari, indicano in modo unico che non occasionalmente, ma nel corso degli anni, l’assessore Chisso ha ricevuto continui versamenti di denaro da parte di vari soggetti tutti legati al Consorzio Venezia Nuova». La Minutillo spiega inoltre che Chisso «era sempre a disposizione». Lei e Baita non dovevano andare in Regione a chiedere favori ma era lui che si recava nella sede di Adria Infrastrutture per prendere ordini. Non se passa meglio il capo della sua segreteria Enzo Casarin «il cui potere di influenza accumulato in questi anni rende tuttora concreto il pericolo di una reiterazione del reato». La massima misura cautelare, «vista l’intensità del dolo dimostrata, rimane dunque l’unica in grado di fronteggiare veramente tale pericolo». E tutti e due, quindi, restano dentro.

(m.pi.)

 

Ex assessore e Marchese sospesi: ma potranno ritornare in Consiglio

‘A subentrare, finché dureranno le restrizioni alla libertà personale, saranno Piccolo e Alessandrini

VENEZIA – Nel basket i giocatori gravati da più falli vengono richiamati in panchina per evitarne la precoce espulsione, salvo tornare sul parquet in una fase successiva della gara. Sostituzione temporanea, si chiama. Come quella comminata a Renato Chisso e Giampietro Marchese, gli esponenti dell’assemblea regionale incriminati nell’ambito della nuova tangentopoli veneta; l’uno esponente di Forza Italia, già assessore a Infrastrutture e mobilità, è tuttora detenuto; l’altro, consigliere ed ex tesoriere del Pd, si trova ai domiciliari. Ieri il prefetto di Venezia,Domenico Cuttaia, ha trasmesso alla segreteria generale di Palazzo Ferro-Fini il decreto del Presidente del Consiglio che sancisce la sospensione di entrambi dalla carica consiliare. Una misura prevista dall’articolo 8 del testo legislativo n. 235 del 31-12-2012, la cosiddetta “Legge Severino”, che al comma 4 impone appunto la sostituzione degli eletti finché a loro carico esistano restrizioni alla libertà personale – carcere, arresti domiciliari, obbligo di soggiorno e di firma – salvo reintegrarli nella funzione non appena le limitazioni vengano meno. Tant’è. Oggi il presidente del Consiglio regionale, Clodovaldo Ruffato, riunirà l’Ufficio e procederà alla sostituzione a tempo della coppia, cui subentreranno i primi tra i non eletti. Sulla poltrona di Chisso siederà così Francesco Piccolo, di Dolo, già assessore in Regione che nel 2010 ha raccolto 2182 preferenze; Alessio Alessandrini, democratico di Portogruaro (2913 voti personali) succederà invece a Marchese. La circostanza non trova precedenti istituzionali. Chisso, con un telegramma inviato il giorno stesso dell’arresto, si è dimesso da assessore della giunta di Luca Zaia, non però da consigliere. Analoga la scelta di Marchese, che si è limitato ad aderire al gruppo misto. Il mandato dei loro successori, perciò, avrà una durata indefinita: a scandire l’inedito stand-by saranno i provvedimenti dell’autorità giudiziaria.

Filippo Tosatto

 

LE RIVELAZIONI DI MILANESE: il regalo fatto alla lega

Quella delibera del Cipe di cui faceva parte Galan

«Fondi bloccati fra il 2008 e il 2010 poi Tremonti decise la settima tranche»

VENEZIA I fondi per la settima tranche del Mose, tenuti in congelatore nel 2009 dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti per ostacolare il suo rivale Giancarlo Galan, sarebbero stati sbloccati l’anno successivo, a seguito dell’elezione di Luca Zaia a governatore del Veneto. Tremonti, infatti, avrebbe puntato a rinsaldare l’intesa con il Carroccio, in vista di una sua possibile candidatura a presidente del Consiglio del ministri. A sostenerlo, nell’interrogatorio di garanzia reso dopo tre notti in isolamento passate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta,) è il già onorevole pidiellino Marco Milanese, 55 anni il prossimo 8 settembre, già consigliere politico di Tremonti, arrestato il 4 luglio nell’ambito dell’inchiesta sul Mose. Zaia puntualizza. Ieri, a margine dell’incontro che ha avuto con il premier Matteo Renzi in occasione di Digital Venice, è arrivata, nettissima, la presa di distanza di Zaia dalle dichiarazioni di Milanese. Per le persone che, secondo la Procura di Venezia utilizzavano le opere del Mose per creare fondi neri «io ero un problema, non una risorsa», ha puntualizzato seccamente il governatore del Veneto, «questa è una vicenda che non mi riguarda, né nei modi né nei tempi, e anch’io l’ho appresa dai giornali». La quinta tranche . Il 31 gennaio 2008 (giusto una settimana prima dello scioglimento delle Camere) il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), presieduto da Romano Prodi, approvò la quinta tranche dei fondi per il Mose: 400milioni. La sesta tranche. Il 13-14 aprile 2008 si tennero le elezioni Politiche che riportarono Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Il 18 dicembre 2008 il Cipe, presieduto da Berlusconi, stanziò per ilMose800milioni di euro. Successivamente il flusso degli stanziamenti si arrestò. Le Regionali del 2010. Le elezioni Regionali del 28-29 marzo videro il trionfo di Luca Zaia, catapultato dagli elettori a Palazzo Balbi. Il 16 aprile Zaia passò il testimone di ministro delle Politiche agricole e forestali a Giancarlo Galan. La delibera Cipe. Il 13 maggio 2010 il Cipe, pilotato per l’occasione dal vicepresidente Giulio Tremonti, approvò la delibera 31/2010 che prevede la «riprogrammazione del fondo infrastrutture ex decreto legge 111/2008, convertito dalla legge 133/2008, articolo 6-quinquies». È in pratica il provvedimento che sblocca i fondi per il Mose. «Era stato però deciso tutto prima», ha affermato Milanese, già tenente colonnello della Guardia di Finanza, con all’attivo una trentina tra encomi ed elogi, nell’interrogatorio di garanzia, «non potevo, né potevo fare pressioni». La settima tranche. I fondi per la settima tranche del Mose vennero però deliberati dal Cipe nella seduta del 18 novembre 2010. «Con le delibere approvate oggi dal Cipe», poteva affermare con orgoglio l’allora ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, «si aprono i cantieri di opere pubbliche per 21 miliardi di euro». Per quanto riguarda il Mose la settima tranche riguardava il finanziamento della prosecuzione delle opere civili alle bocche di porto (50 milioni di euro), la prosecuzione dei cassoni di fondazione e di spalla delle quattro barriere (110 milioni), la prosecuzione della fornitura e della posa in opera delle opere meccaniche ed elettromeccaniche (40 milioni di euro), gli interventi collegati e connessi (30 milioni di euro). In totale 230 milioni di euro. Quel giorno il Cipe accolse anche la proposta del ministro delle Politiche agricole Giancarlo Galan (che del Comitato faceva parte a pieno titolo) per destinare 100 milioni al settore agroalimentare. Anche l’onorevole Renato Brunetta, allora ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione poteva esprimere la sua «grande soddisfazione peruna decisione che assicura la prosecuzione delle lavorazioni in corso in un’infrastruttura strategica e che richiedono continuità operativa».

(c.bac.)

 

IL PREMIER IN VENETO »LE PROTESTE DEI COMITATI

In prima linea contro Mose e grandi navi

Corteo all’Arsenale contro il Consorzio e per chiedere a Renzi di allontanare i giganti del mare dal Bacino di San Marco

VENEZIA «Nessuna Soluzione Contorta», in tutti i sensi. È questa l’indicazione dei comitati ambientalisti che ieri mattina si sono radunati davanti all’Arsenale Militare per tentare di incontrare Matteo Renzi, presente al Digital Venice alle Tese, dall’altro lato del bacino. Un contatto in un certo senso c’è stato, ma solo tramite il capo del cerimoniale di Stato Ilva Sapora che ha riferito ai delegati Marta Canino e Armando Danella che il premier ha assicurato di leggere tutta la documentazione e di dare una risposta perché «anche lui vuole trasparenza ». Solo una mezza conquista per la carica dei duecento abbondanti che speravano in un incontro ravvicinato con il Presidente del Consiglio. Sono le 10 di mattina, ma il caldo afoso non risparmia nessuno. Considerando che è periodo di vacanza e che è un giorno lavorativo, i manifestanti non si lamentano del numero delle presenze dicendosi soddisfatti. I comitati sono in prevalenza «Ambiente Venezia», capeggiato da Armando Danella, i «No Grandi Navi» e «No Mose», diretti da Tommaso Cacciari e Marta Canino, Italia Nostra con Cristiano Gasparetto e Andreina Zitelli, ex componente della commissione di valutazione impatto ambientale del Mose. Tra i manifestanti l’ex consigliere comunale Beppe Caccia, Chiara Marri della Municipalità e Salvatore Lihard, ambientalista. Per il resto tantissimi giovani che cantano e ripetono alcuni leit motiv della giornata, in particolare «basta con la concessione unica » «fuori le navi dalla laguna». Non si sa ancora se la polizia farà entrare tutti in Arsenale,mail corteo sulle undici avanza lungo la fondamenta, fino ad arrivare a un faccia a faccia con la polizia a una distanza di circa un paio di metri. I rappresentanti dei comitati chiedono che una delegazione vada a consegnare al premier alcuni documenti che spiegano la posizione degli ambientalisti sulla laguna, dalle Grandi Navi al Mose. Alla fine, dopo una breve contrattazione tra cittadini e forze dell’ordine, la polizia fa passare tutti i portavoce, eccetto Cacciari che rimane fuori con il corteo. Il gruppo entra, ma arrivati alle Gaggiandre la selezione prosegue. Soltanto due possono attraversare il bacino e provare a incontrare Matteo Renzi. Si decide per la Canino e Danella, due generazioni che si stanno passando il testimone. Mentre i portavoci vanno verso le Tese, gli storici ambientalisti precisano qual è l’urgenza: «Il Consorzio Venezia Nuova continua a dire che i lavori sono giunti all’85%, ma mancando un progetto esecutivo non si di preciso dove siamo arrivati. Noi chiediamo una moratoria affinché venga istituita una commissione di inchiesta sull’impatto del Mose». Dopo una decina di minuti Canino e Danella fanno ritorno, riportando le parole dela Sapora. I punti chiesti sono cinque: nessuna decisione del Comitatone prima delle elezioni comunali, scioglimento del concessionario unico, blocco lavoro delle bocche di porto del Lido, sospensione finanziamenti CIPE per trasferirli per tutelare la città e no allo scavo del Contorta. A questo proposito, qualche giorno fa, Sandro Trevisanato, presidente di VTP, ha fatto sapere che, a causa delle continue proteste, Venezia non sarà più leader del Mediterraneo, con una perdita di circa 200 mila passeggeri, diretti verso Trieste.

Vera Mantengoli

 

MOSE/ IL GIUDICE: ECCO PERCHÈ DEVE STARE IN CARCERE

«Chisso era del tutto asservito agli interessi di Baita e Consorzio»

«Era completamente a disposizione degli interessi dei privati…». Cioè di chi dice di avergli versato le tangenti per il Mose. Per questo i giudici del tribunale del riesame hanno tenuto in carcere l’ex assessore veneto Renato Chisso. Che, da parte sua, respinge le accuse sostenendo di non aver intascato un euro.

Nel febbraio 2013 Sutto fa il “postino” della somma, ma è intercettato

Ecco perché il Riesame l’ha tenuto in cella: «Era a completa disposizione»

LE MOTIVAZIONI «Solo la custodia in carcere può impedire la reiterazione dei reati»

LA DIFESA «Mai preso un euro Usato come fattorino per Galan? Poco credibile»

LA RICOSTRUZIONE DEI GIUDICI – La consegna di 150mila euro documentata e confermata

«L’assessore Chisso asservito agli interessi di chi lo pagava»

(gl.a) Le principali fonti di prova per le presunte mazzette contestate a Renato Chisso sono le dichiarazioni di chi sostiene di aver pagato: Claudia Minutillo, Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati. Ma c’è anche un episodio “registrato” in diretta dagli inquirenti: la consegna di 150mila euro che l’allora assessore regionale avrebbe ricevuto il 7 febbraio del 2013 dalle mani di Federico Sutto, uno dei più stretti collaboratori del presidente del Consorzio Venezia Nuova.
In quel periodo la Guardia di Finanza era al lavoro da tempo con pedinamenti, servizi di osservazione, intercettazioni ambientali e telefoniche. Ed è grazie a questa attività che le Fiamme gialle seguono minuto per minuto gli accordi e gli incontri tra Sutto e il responsabile amministrativo della Mantovani, Nicolò Buson, nonché quelli tra il consigliere del Cvn per conto del Coveco, Pio Savioli e il responsabile della cooperativa San Martino, Stefano Boscolo Bacheto, impegnati a definire la consegna delle somme che le varie società aderenti al Consorzio devono versare per contribuire ad “oliare” i politici. Il 31 gennaio viene fissato un incontro per il 6 febbraio, nel corso del quale Boscolo consegna 150mila euro a Savioli (lo ha confessato l’imprenditore dopo l’arresto). Lo stesso giorno Buson promette 10mila euro a Sutto, prima tranche di una somma dovuta da un’altra società.
LA CONSEGNA – Il 7 febbraio Savioli incontra Sutto, gli consegna i 150mila euro e ne promette altri 100 per il successivo marzo; mezz’ora dopo Sutto incontra Buson. E nel pomeriggio telefona alla segretaria di Chisso che, dopo aver sentito l’assessore, gli dice di passare subito. «L’incontro avviene – scrivono i giudici del Tribunale del riesame – i soldi sono consegnati e lo conferma la telefonata del giorno dopo, quando Savioli, parlando con Rismondo, riferisce di aver consegnato “150” al partito della Brotto (l’ingegnere del Cvn che si occupa della progettazione del Mose, ndr), cioè al Pdl».
SUBORDINAZIONE TOTALE – Un colloquio intercettato il 31 gennaio è la dimostrazione, secondo i giudici, del rapporto di sudditanza di Chisso nei confronti della di Piergiorgio Baita e del Consorzio Venezia Nuova. L’assessore si reca nell’ufficio di Claudia Minutillo, ad Adria Infrastrutture, ed è la Minutillo «che conduce il discorso, indica i temi, chiede conto dei “ritardi”… detta l’ordine delle priorità che l’assessore deve osservare», mentre Chisso «senza replicare subito acconsente: va bene, ok”». Agli atti c’è anche un sms inviato alla Minutillo, nel quale l’assessore dichiara di essersi comportato in un certo modo per “dovere di squadra”. «La subordinazione finisce per diventare una palese immedesimazione negli interessi del Gruppo Mantovani», spiegano i giudici.
MAZZACURATI – Nel memoriale e negli interrogatori sostenuti in Procura ha spiegato che per il Consorzio Venezia Nuova era essenziale garantire la prosecuzione dei lavori per il Mose «e per questo si rivolgeva “al Governatore (Galan), a Chisso” e poi all’occorrenza, andava “dal dottor Letta (Gianni)”; questi rapporti privilegiati con Galan e Chisso avevano un costo, che Mazzacurati ha sommariamente quantificato in “un milione di euro l’anno”…. i maggiori versamenti erano in favore di Galan, mentre all’assessore Chisso veniva corrisposta annualmente la somma di 200-250mila euro; i pagamenti a quest’ultimo erano iniziati alla fine degli anni ’90 ed erano proseguiti sino all’inizio del 2013…»
Mazzacurati ha raccontato di essersi occupato personalmente di alcune consegne; delle altre si sarebbe occupato Sutto.
MINUTILLO E BAITA – Il racconto dell’ex segretaria di Galan, fatto nel marzo del 2013, costituisce un riscontro alle confessioni di Mazzacurati, avvenute nel successivo luglio. La Minutillo riferisce di aver saputo da Baita che a Chisso i soldi arrivavano tramite Sutto, Enzo Casarin e dallo stesso Mazzacurati, quando l’assessore di recava a pranzare assieme a lui all’hotel Monaco, a Venezia. Minutillo ha raccontato che fu lo stesso Chisso a confidarle gli avvenuti pagamenti, «lamentando che Mazzacurati gli corrispondeva somme solo alle feste comandate». Baita, per finire, «ha ribadito la continuità dei versamenti a Chisso».
CONTI ALL’ESTERO – La difesa dell’assessore ha contestato l’indeterminatezza delle dazioni e sostiene che la prova dell’innocenza di Chisso sta nelle stesse indagini patrimoniali della Finanza, che non ha trovato neppure un euro all’assessore. Ma per il Riesame questo elemento non ha alcun rilievo: «Portare soldi all’estero sembra costituire la regola, non l’eccezione… – scrivono i giudici – ed è certo assai improbabile che un assessore regionale tenga i soldi frutto di corruzione in un conto corrente a nome proprio o a quello dei suoi familiari, presso una banca sita nel territorio della Repubblica».

 

’INTERROGATORIO – L’ex deputato del Pdl non ha mai parlato di Zaia nella sua deposizione

IL RICORDO «La Padania fece una pagina sul Mose: era un obbiettivo del Carroccio»

IL SOSPETTO SU CONTI ALL’ESTERO «È improbabile che i soldi siano su un proprio conto»

IL SEGRETARIO «Casarin ha continuato a trafficare con le tangenti come negli anni ’90»

«L’assessore Chisso si era messo a completa disposizione degli interessi dei privati… Tenuto conto della gravità dei fatti, dell’intensità del dolo, della pluralità delle singole dazioni succedutesi negli anni, la misura della custodia in carcere è di conseguenza l’unica in grado di impedire efficacemente la reiterazione di episodi simili». Lo scrive il Tribunale del riesame nelle motivazioni – depositate ieri – dell’ordinanza con cui ha confermato il carcere per l’ex assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso. In 17 pagine, scritte dal relatore Patrizia Montuori, sono elencati i gravi indizi raccolti dai pm Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini: «Il quadro indiziario a carico dell’indagato è solido ed esauriente e questo sia in ordine alle dazioni di denaro conferite negli anni all’assessore Chisso, sia in relazione ai singoli episodi contestati, sia infine all’asservimento delle sue funzioni agli interessi dei privati che lo pagavano».
Chisso, assistito dall’avvocato Antonio Forza, nega di aver mai percepito un solo euro dal Consorzio Venezia Nuova, sostenendo che chi lo accusa di aver preso mazzette non racconta la verità. Ma secondo i giudici «non ha spiegato perché mai queste persone avrebbero dovuto accusare ingiustamente una persona con cui erano stati in stretti e amichevoli rapporti fino a pochi mesi prima…»
Contro l’assessore vi sono le confessioni di Claudia Minutillo, ex segretaria dell’allora presidente della Regione, Giancarlo Galan; dell’ex presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita e dell’ex responsabile amministrativo della stessa società, Buson; dell’ex presidente del Consorzio, Giovanni Mazzacurati. «Le loro dichiarazioni sono credibili – scrivono i giudici – perché provengono da persone che quei comportamenti e quelle azioni conoscevano direttamente, avendovi spesso partecipato: la generale attendibilità dipende infine dal fatto che non solo si sono completate a vicenda, ma che, soprattutto, hanno confermato, arricchendolo di nuovi particolari, il quadro di quella complessa trama criminosa che gli inquirenti avevano già in gran parte delineato ed accertato».
A fornire ulteriori elementi di riscontro hanno contribuito l’ex vicepresidente del Cvn, Roberto Pravatà e l’imprenditore Mirco Voltazza, l’uomo che Baita aveva assoldato per attività di “spionaggio” in modo da ottenere in anticipo informazioni sulle inchieste che lo riguardavano. A Chisso la Procura contesta anche di aver fatto da tramite per le consistenti somme di denaro che Mazzacurati e Baita sostengono di aver versato all’allora governatore Galan – un milione di euro all’anno – in cambio del suo appoggio al progetto Mose. La difesa ha eccepito sostenendo che «è poco credibile che un assessore venga usato come fattorino». Ma il Tribunale rileva che dagli atti emerge l’esistenza di «una procedura macchinosa»: per la consegna dei soldi sarebbero stati utilizzati in più occasione degli intermediari «e Chisso è correttamente indagato in questo episodio come concorrente nel delitto di corruzione a Galan».
Tra gli intermediari delle mazzette viene indicato anche il segretario di Chisso, Enzo Casarin: per lui è stata confermata la misura cautelare in carcere sia per l’esistenza di gravi indizi, sia per i precedenti penali per corruzione e concussione, reati per i quali fu condannato nell’ambito della Tangentopoli del Veneto. «Malgrado questi gravissimi precedenti – sottolineano i giudici – è stato scelto da Chisso quale capo della sua segreteria ed in tal modo ha potuto così continuare a trafficare con le tangenti, così come aveva fatto all’inizio degli anni ’90».

Gianluca Amadori

 

«Mazzacurati mi perseguita…»

Milanese al gip: «Tremonti voleva favorire la Lega, ma non ne poteva più dell’ingegnere e me lo affidò»

«L’ingegnere Mazzacurati mi perseguita, mi rompe le scatole, continua a telefonarmi… pensaci tu». Giulio Tremonti, arrotando la “erre” con lo “stile” che lo contraddistingue, si rivolse con questo tono a Marco Milanese, suo consulente al ministero dell’Economia. Era il 2010 e il presidente del Consorzio Venezia Nuova era sulle spine perché non arrivavano i soldi per far avanzare il progetto del Mose. Per questo, presentatogli dal manager vicentino Roberto Meneguzzo della Palladio, Mazzacurati aveva contattato il ministro dell’Economia, che allora accarezzava il sogno di diventare premier al posto di Berlusconi. E che per questo coltivava con cura i rapporti con la Lega, partner di governo importante, capace di lanciare Luca Zaia ai vertici della Regione Veneto, dopo i tre lustri di governo di Giancarlo Galan, cordialmente detestato da Tremonti.
Per il ministro, Mazzacurati divenne una specie di tormento. Così ha raccontato Milanese, ora detenuto su decisione del gip di Venezia Alberto Scaramuzza, a causa di 500mila euro che gli sarebbero stati consegnati (da Mazzacurati) per ottenere lo sblocco dei milioni necessari per far avanzare i lavori del Mose. In un’autodifesa alquanto minimalista, l’ex deputato di Forza Italia, assistito dall’avvocato Bruno Larosa, ha inquadrato in una chiave squisitamente politica la storia di quel finanziamento. Negando, ovviamente, di avere incassato alcunchè. Egli teneva i rapporti con Mazzacurati soltanto perché glielo aveva chiesto Tremonti, che voleva evitare scocciature, ma che non poteva permettersi sgarbi in un territorio come il Veneto dove la Lega era sempre più potente, dopo la vittoria di Zaia.
A Milanese, interrogato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il gip non ha chiesto nulla sui rapporti di Tremonti con i vertici del Carroccio, nè se egli avesse referenti leghisti anche a Venezia, oltre che a Milano. L’inchiesta riguarda, infatti, un episodio specifico di supposta corruzione. Casomai quelle domande verranno poste a Tremonti quando dovesse essere interrogato come persona informata dei fatti dai magistrati milanesi che erediteranno la tranche investigativa che riguarda il “tangentone” da 500mila euro. Milanese ha però ricordato una curiosità significativa. «A quell’epoca il quotidiano leghista “La Padania” pubblicò una pagina intera in cui sponsorizzava il Mose, la cui realizzazione diventava in qualche modo un obiettivo politico del Movimento: lo rivendicava come un successo». Così ha detto, più o meno testualmente. E di Zaia non ha mai parlato.
Intanto a Venezia si commenta questa ricostruzione del Mose come sponda di Tremonti per ingraziarsi la Lega e coltivare ambiziosi progetti personali. Zaia mette le cose in chiaro: «È una vicenda che non mi riguarda, né nei modi, né nei tempi e anch’io l’ho appresa dai giornali. È anche vero che, dalle intercettazioni, viene fuori che il sottoscritto non era visto come una risorsa, bensì come un problema»

 

Faccia a faccia con la polizia, poi in due vengono ammessi all’incontro col premier

Sono arrivati in 200 ma solo 2 sono riusciti ad avvicinarsi al premier Renzi. Nessun disordine o scontro alla manifestazione dei centri sociali, delle associazioni ambientali e dei movimenti contro le grandi navi e il Mose che ieri mattina si son dati appuntamento all’Arsenale per chiedere udienza a Matteo Renzi, ospite del Digital Venice. Bandiere e trombette in mano, intenti annunciati al megafono e striscioni appesi sul ponte in legno dell’Arsenale, il tutto sorvegliato a vista dagli agenti di Polizia e Carabinieri dall’altra parte della riva. C’era anche Beppe Caccia che ha sottolineato: «Renzi deve ascoltare i comitati che da vent’anni a questa parte hanno sempre avuto ragione». Il corteo, tra slogan e musica, si è avvicinato all’entrata delle corderie all’Arsenale che porta alle Gaggiandre, dove, dall’altra parte del bacino, si stava inaugurando l’evento che da lì a poco avrebbe visto la manifestazione del capo di Governo. Al campiello della Tana però, i manifestanti hanno trovato la strada sbarrata da un cordone di agenti in tenuta antisommossa. Le forze dell’ordine a difesa dell’Arsenale hanno subito notato le intenzioni pacifiche dei manifestanti, in tenuta estiva e sprovvisti di caschetti. Così, sono iniziate le trattative tra il leader dei centri sociali Tommaso Cacciari e lo schieramento di sicurezza.
Ad una delegazione di sei persone è stato concesso di addentrarsi nella darsena grande per raggiungere il premier e consegnare il dossier e la lettera dei comitati sulla questione del Mose e della grandi navi in laguna. Ad entrare: Marta Canino, Chiara Buratti, Armando Danella, Luciano Mazzolin, Cristiano Gasparotto e Andrea Zitelli. Una volta giunti alle Gaggiande però, solo Danella e Canino sono stati trasportati dall’altra parte della riva con la navetta, raggiungendo le Tese dove li attendevano il prefetto Domenico Cuttaia, il questore Vincenzo Roca e Ilva Sapora, direttrice del dipartimento Cerimoniale a cui è stata consegnata la documentazione e ha assicurato una risposta da parte del premier. Nella lettera che accompagnava il dossier, firmata dall’associazione Ambiente Venezia e dal Comitato No Grandi Navi, la richiesta di indire elezioni anticipate a Venezia, la sospensione momentanea dei lavori del Mose fino alla costituzione di una commissione tecnica per la sua verifica. E ancora: il blocco dei finanziamenti del Cipe all’opera marittima, la revoca immediata della concessione del Consorzio Venezia Nuova e l’individuazione della bocca di porto del Lido per il passaggio delle navi da crociera che ora attraversano il bacino.

 

Sms di Milanese: il triangolo della mazzetta

Il consigliere di Tremonti informò così Meneguzzo e Mazzacurati dell’arrivo di 400milioni dal Cipe

VENEZIA Marco Milanese, arrestato nella vicenda Mose, avrebbe ricevuto la presunta tangente da 500 mila euro il 14 giugno 2010 nella sede di Milano di Palladio finanziaria alla presenza del suo Ad Roberto Meneguzzo e di Giovanni Mazzacurati, allora presidente del Consorzio Venezia Nuova, in un incontro a tre. La tangente – come ricostruiscono i pm della Procura di Venezia – serviva ad accelerare l’ingresso della «pratica»Mose al Cipe per ottenere i finanziamenti per la continuazione delle opere di difesa di Venezia dalle acque alte eccezionali; una cifra inizialmente di 230 milioni di euro poi salita a 400 milioni. Secondo l’ordinanza del Gip di Venezia Alberto Scaramuzza la dazione sarebbe testimoniata da «quattro riscontri » di quello che è un incontro «a tre tra Meneguzzo, Mazzacurati e lo stesso Milanese». Il primo elemento è «l’agenda informatica di Mazzacurati, da cui risulta partenza il 14 giugno 2010 da Venezia alle 8.30 per Milano con ritorno la stessa giornata». Il secondo è quello che indica come ci siano «due telefonate» intorno a mezzogiorno e mezzo dello stesso giorno «partite dal cellulare di Mazzacurati che hanno attivato celle telefoniche» in zone vicine alla «sede della Palladio finanziaria » con investigazioni che testimoniano l’arrivo di Mazzacurati in quell’ufficio. A ciò si aggiungono i tabulati del telefono di Meneguzzo che indicano che l’Ad di Palladio finanziaria è nel suo ufficio lombardo. Il pagamento era stato accelerato dopo che la Guardia di finanza aveva effettuato dei controlli al Cvn e Milanese non figurerebbe nell’ordinanza con elementi probatori – anche se viene citato come presente – probabilmente perché all’epoca dei fatti ancora parlamentare del Pdl e quindi «protetto» dall’immunità sul fronte di eventuali intercettazioni. Marco Milanese, ex ufficiale della Guardia di Finanze poi sottosegretario all’Economia e consigliere politico dell’ex ministro Giulio Tremonti avrebbe avuto così un ruolo decisivo nel persuadere Tremonti a cambiare la ripartizione dei fondi Cipe mentre a saldare materialmente la sua «ricompensa» avrebbe provveduto Piergiorgio Baita.

 

IMPUTATI FORZISTI

Galan: giovedì il voto sull’arresto

Oggi Lia Sartori davanti al giudice

VENEZIA Settimana decisiva per Giancarlo Galan: mercoledì e giovedì la giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera discuterà e voterà la richiesta di arresto del parlamentare di Forza Italia avanzata dalla Procura di Venezia. Il padovano, che continua a ribadire la propria innocenza, si appella al decreto svuota-carceri e manda a dire: «Mi sento come Enzo Tortora. Come lui vengo accusato da persone assolutamente inaffidabili, che hanno degli interessi per agire come hanno fatto al carcere “non sono mai rassegnato. Vorrei essere giudicato come un uomo.Non come il politico Galan, non come il fedelissimo di Berlusconi o l’amico di Dell’Utri». La commissione, tuttavia, è chiamata a pronunciarsi esclusivamente sull’esistenza o meno del fumus persecutionis nei suoi confronti ed un sì all’arresto appare probabile. Oggi intanto il giudice Alberto Scaramuzza interrogherà Lia Sartori, già europarlamentare forzista,da sei giorni agli arresti domiciliari nel suo appartamento nel centro di Vicenza; è accusata di illecito finanziamento, avrebbe incassato 225 mila euro da Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, per le sue campagne elettorali. «Non ho nulla a che vedere con le ipotesi di reato», ha dichiarato al suo collegio difensivo composto dagli avvocati Zanettin, Moscatelli e Coppi.

 

IL RUOLO DEL COMMERCIALISTA VENUTI E QUELLO DI SANDRA PERSEGATO

Nuovo esposto del M5S sugli appalti nel Veneto

VENEZIA I parlamentari veneti del M5S, prima firmataria la deputata Silvia Benedetti, hanno presentato un esposto alla Procura di Venezia relativi agli appalti veneti. La denuncia, successiva a sei atti ispettivi, parte dal commercialista Paolo Venuti, revisore dei conti molto attivo in Veneto, presente con varie cariche in decine e decine di società da Banca Padovana Credito cooperativo a Padova fiere spa a Concessioni autostradali venete ad Adria Infrastrutture, controllata dalla Mantovani che aveva come presidente Piergiorgio Baita, tra l’altro vicepresidente di Adria. «Qui inizia la lunga catena di collegamenti che passando per Sandra Persegato arriva fino a Paolo Berlusconi, attraverso decine di società con sedi in giro per il mondo», afferma Benedetti «presso lo studio di Venuti ha infatti il domicilio fiscale proprio la moglie di Galan, che è amministratore unico della Margherita srl, a sua volta collegata ad Adria». «Margherita srl è stata fondata nel 2008», si legge nell’esposto «e ha tra i fondatori anche la Comunità Incontro Onlus di don Pietro Gelmini. Un intreccio inestricabile che collega tra di loro gli attori dell’ impalcatura delle indagini della magistratura veneta. Perché continuare ad assegnare a queste società, evidentemente compromesse, le grandi commesse pubbliche del Veneto? Il cosiddetto “sistema Mantovani”, che comprenderebbe anche un sistema di spionaggio delle indagini venete allo scopo di proteggere gli affari poco puliti, era già attivo.Le persone erano sempre le stesse». «L’attività ispettiva», scrivono i parlamentari del Movimento 5 Stelle «si concludeva con la richiesta di valutare l’opportunità di sospendere l’attività dei cantieri interessati, in attesa che le indagini fornissero un quadro più chiaro sul presunto sistema».

 

«Serve subito un’alternativa ecosostenibile»

I Comitati chiedono un incontro con il premier Renzi che domani sarà a Venezia per il Digital Venice

Una delegazione del Comitato No Grandi Navi sarà presente in Arsenale e potrebbe essere ricevuta dal premier Renzi (o da un suo delegato) nel corso della sua partecipazione- lampo, martedì mattina, a Digital Venice 2014. L’appuntamento è fissato per le 10, in campo dell’Arsenale, al quale seguirà un corteo autorizzato fin dentro l’Arsenale, attraverso l’ingresso della Biennale e fino alle Gaggiandre. La manifestazione si concluderà così proprio di fronte alla Torre di Porta Nuova, dove il premier Matteo Renzi sarà in teleconferenza in occasione di Digital Venice 2014. Obiettivo della protesta è quello di presentare al presidente del Consiglio un documento in cinque punti per chiedere: la fine della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova; una moratoria dei lavori alle bocche di porto; «un’ispezione tecnica sui lavori del sistema Mose affidata a una authority indipendente, che studi la possibilità di riconversione del sistema, mediante una variante in corso d’opera»; stop al progetto di scavo del canale Contorta dell’Angelo o di altri canali; grandi navi fuori dalla laguna e realizzazione di un nuovo avamporto alla bocca di porto del Lido. Mentre il Comitato si prepara in vista di martedì, il portavoce Silvio Testa interviene in merito alle parole roventi del presidente di Vtp Sandro Trevisanato sul fuggifuggi della Costa a Trieste: «Se Costa Crociere va a Trieste la colpa non è di chi a Venezia si è opposto a un crocerismo incompatibile proponendo da subito soluzioni alternative ambientalmente sostenibili, rapide da realizzare, che garantirebbero lavoro, indotto, il futuro della Marittima, ma di chi si è ostinato per tre anni a sostenere l’indifendibile avanzando “soluzioni” devastanti per la laguna e per la città. Senza dimenticare i sindacati».

 

Tangenti, indagini sul tram

Nuovi fronti dopo il Mose: anche ospedale e Passante

Tram, ospedale e Passante. La procura guarda a Mestre

Dopo aver aperto il capitolo Veneto Strade con i documenti sequestrati a Baita ora nel mirino dei magistrati c’è l’Ati con la Mantovani che ha realizzato il metrobus

VENEZIA Oltre al Mose. Ora l’attenzione degli inquirenti, che hanno spazzato via il comitato politico d’affari governato dal duo Baita-Mazzacurati, si sposta su altre grandi opere realizzate a Venezia negli ultimi dieci anni: passante di Mestre, ospedale dell’Angelo e tram. Inevitabile che questo avvenisse.Una scelta obbligata per i sostituti Stefano Ancillotto, Paola Tonini e Stefano Buccini e per gli uomini della Guardia di Finanza. Anche perché, durante le indagini iniziate tre anni fa e che hanno portato in carcere oltre 35 persone tra politici, amministratori e imprenditori, più di un indagato, a iniziare da Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita, ha spiegato che le imprese da far lavorare erano scelte a tavolino e politici e amministratori compiacenti venivano ricompensati con “mazzette” o con sponsorizzazioni e incarichi a parenti e amici vari. Questo valeva per destra e sinistra, a seconda di chi c’era nei posti dove si decideva. Regola valida per tutte le grandi opere pubbliche. Sul Passante di Mestre la Procura di Venezia ha già messo le mani, lo scorso anno, dopo aver trovato documenti relativi a “Veneto Strade”, nella società sanmarinese che Baita ha usato allo scopo di procurarsi fatture false e creare così “fondi neri”: l’analisi dei documenti sequestrati continua. Stessa analisi ora inizia per tram e ospedale di Mestre che sono un affare da 388 milioni di euro: 168 milioni il tram e i restanti 220 l’ospedale. Entrambe le opere sono state realizzate da Associazione temporanea d’imprese. E guarda caso molte delle società che vi partecipano sono coinvolte nell’inchiesta Mose. A cominciare dalla “Mantovani” di Piergiorgio Baita. La domanda è ovvia: Se le regole imposte da Baita e Mazzacurati valgono per il Mose, perché non dovrebbero essere imposte, stessi protagonisti e stesso periodo, per le altre grandi opere? La risposta ora la cercano i magistrati. Il progetto definitivo del tram (linee Favaro Veneto-Mestre- Venezia e Mestre-Marghera) è stato aggiudicato nel 2004 (in seguito alla gara d’appalto bandita dalla giunta di Paolo Costa) all’Associazione Temporanea d’Imprese di cui fanno parte la mandataria Gemmo, la Lohr Industrie, Metropolitana Milanese Spa, Net Engineering Spa, Studio Altieri Spa, Sacaim, Impresa Costruzioni Ing. Mantovani e Clea Impresa Cooperativa di costruzioni generali. Il tram è entrato in funzione il 20 dicembre 2010. Tra il 2004 e il 2005, la realizzazione del tratto Favaro-Mestre ha subito uno stop, non previsto, perché erano finiti i soldi. Mancavano all’appello 10 milioni di euro poi arrivati dallo Stato. Mentre si attende l’entrata in funzione del proseguimento fino a Marghera e si attende, il prossimo anno, di arrivare a piazzale Roma, ora si accendono i riflettori della magistratura.

Carlo Mion

 

È lo stesso mezzo Translohr di Padova

La rete tranviaria di Mestre è una rete di trasporto pubblico, in parte attiva e in parte in corso di realizzazione. Il tracciato delle due linee previste si svilupperà tra Mestre, Marghera e Favaro Veneto, collegandosi al terminal di piazzale Roma attraverso il ponte della Libertà. Dal dicembre 2010 è attiva la linea T1, che utilizza parte del percorso della prevista linea T1 e parte del percorso della prevista linea T2. L’attuale non è una tranvia di tipo classico, bensì utilizza un sistema guidato di tipo Translohr a una sola rotaia. Ciò ha fatto sì che il sistema venga chiamato in vari modi per differenziarlo dalla tecnologia del tram classico su rotaia, a seconda delle fonti. Dal punto di vista giuridico il Translohr è assimilato a un veicolo tranviario anche se viaggia su gomma. Sistema uguale a quello di Padova. La progettazione e la costruzione della rete tranviaria è affidata a PMV-Società del Patrimonio per la Mobilità Veneziana, nata dalla scissione da ACTV nel 2003, al fine di gestire le infrastrutture del trasporto pubblico. La gestione della tranvia è invece affidata ad ACTV, l’attuale gestore del trasporto pubblico in tutto il territorio comunale di Venezia, in virtù di una convenzione.

 

l’ex consigliere dell’ex ministro dell’economia: non ho mai preso un euro

Un sms di Milanese dopo l’ok Cipe «Ma era Giulio a gestire tutto»

PADOVA – Con un sms al finanziere Roberto Meneguzzo, Marco Milanese avverte che «c’è la norma per il Mose» al Cipe. Il messaggino, del 24 maggio 2010, segna di fatto la comparsa del nome del consigliere dell’allora ministro Giulio Tremonti nell’inchiesta Mose. Milanese è stato arrestato l’altro ieri per corruzione. Il suo interessamento per garantire fondi alla prosecuzione dell’opera, tanto caldeggiato da Giovanni Mazzacurati, presidente di Cvn, tramite Roberto Meneguzzo, gli avrebbe portato una «mazzetta» di 500mila euro versata il 14 giugno 2010, pochi giorni dopo il via libera del Cipe. Il messaggino è tra le intercettazioni della Guardia di finanza che indagava su Cvn. A versare la tangente al braccio destro dell’ex ministro Giulio Tremonti è stato il re del Mose, Giovanni Mazzacurati, come scrive il gip Alberto Scaramuzza nell’ordinanza di arresto dell’ex parlamentare Pdl. Un provvedimento dettato dall’urgenza per la «pericolosità sociale eccezionalmente elevata e un intenso pericolo di reiterazione dei reati ». Ma prima di vedersi stringere la manette ai polsi, l’ex deputato Marco Milanese ha raccontato la sua verità a Valeria Pacelli, giornalista del «Fatto» che l’ha incontrato in un bar a Roma il 18 giugno scorso. Ecco i passaggi salienti del suo racconto: «Io non ho preso un euro, facevo solo da segretario. Giovanni Mazzacurati si era messo d’accordo con Giulio Tremonti e non aveva bisogno di pagare me. Va bene la casa di Giulio, va bene l’orologio, ma pure il Mose no. Io non dormo più perché penso che qualcuno domani mattina può venirmi a prendere», previsione che si è avverata con qualche settimana di ritardo. Da giovedì Milanese si trova in una cella del carcere di Santa Maria Capua Vetere, lo stesso che ospita il colonnello della GdF Fabio Massimo Mandella, arrestato per un’inchiesta della procura di Napoli in cui Milanese è accusato di corruzione. Ma torniamo alle delibere Cipe per il Mose. «Tutti sanno che i lavori non si possono fermare… Il ministro che decideva era Tremonti, il viceministro con la delega al Cipe Gianfranco Micciché, Vincenzo Fortunato fa l’ordine del giorno e poi io mi prendo i soldi. Non capisco. L’unico problema era che il ministero delle Infrastrutture aveva un miliardo a disposizione e voleva altri 400 milioni da Tremonti, che invece ha rassicurato Mazzacurati e gli ha detto: stai tranquillo, i soldi per il Mose ci sono, ci dobbiamo mettere d’accordo con Matteoli. Perché soldi in più non gliene do. Non c’era bisogno di corrompere. Soldi non ne abbiamo presi, né io né Tremonti. E a Roberto Meneguzzo dicevo di non rompere i coglioni, lui era pressante, chiamava… Io facevo il segretario, ero delegato a dire “non si preoccupi’’ e per questo mi sarei preso 500 mila euro? Non è possibile » spiega Milanese al «Fatto quotidiano». Segue poi un elenco di lamentazioni. «Mi viene da piangere, devo stare attento a comprare le cose. Guadagnavo 50 mila euro al mese nel 2006, non ero nessuno e facevo il professionista. Ora devo vivere grazie alla mia compagna. Ho avuto accertamenti bancari, stavo comprando una casa con il mutuo, è tutto bloccato. Vi pare corretto dopo 35 anni di servizio per l’amministrazione? Mi hanno chiesto di patteggiare 1 anno e mezzo per tutti i processi ma non voglio essere considerato un colpevole» conclude Milanese (r.r.)

 

L’interrogatorio di mazzacurati che si vergogna a pronunciare la parola corruzione

«Ho incontrato due volte a Roma il ministro Tremonti nel suo ufficio»

I rapporti con il generale Spaziante e Matteoli che premeva per la Socostramo

Era Galan a gestire gli incarichi per i collaudi delle opere realizzate a Venezia

VENEZIA Si vergogna l’ingegnere Giovanni Mazzacurati a pronunciare la parola «corruzione». Preferisce l’eufemismo «spese », per indicare il sistema corruttivo che ha messo in piedi, con il quale paga tutti quelli che possono ostacolare il Mose. Con il soldi delle tasse, ovviamente, non con i suoi. «Spese è un termine generico», lo incalzano i pm. «E’un modo di esprimersi», risponde lui. «Ce lo chiarisca», insistono quelli. «Effettivamente era una cosa illecita, nel senso che…». Ma non riesce ad andare avanti. «Nel senso che lei metteva a conoscenza le persone, quando retrocedevano le somme al Consorzio, del perché le retrocedevano e questi erano perfettamente informati?». «Sì, era per questi scopi». Sembra di essere dal dentista: bisogna cavargli le parole di bocca con le pinze. Succede nell’ultimo interrogatorio del «grande burattinaio». E’ il 9 ottobre 2013, i pm Paola Tonini e Stefano Ancilotto vogliono riscontrare tutte le ammissioni fatte in precedenza. Mazzacurati parla di Tremonti, Milanese, Meneguzzo, Lia Sartori, Spaziante, Cuccioletta, la Piva, Paolo Costa, Matteoli e del sistema dei collaudi sul quale l’ultima parola era di Giancarlo Galan. Lo assiste l’avvocato Giovanni Muscari Tomaioli.

D. Lei ha incontrato il ministro Tremonti?
R. Sì, due volte, al ministero. Sempre dasoli.
D. Chi le aveva procurato l’appuntamento?
R. Meneguzzo, mi sembra, senza Milanese.
D. Ha incontrato anche Lia Sartori?
R. Sì, mi aveva detto che aveva bisogno di fondi. L’ho incontrata quattro volte, tra il 2006 e il 2010. Ogni volta le portavo 50.000 euro. Mi telefonava lei, non c’era bisogno di intermediari perché ci conoscevamo da tempo.
D. Com’è entrato in contatto con il generale Spaziante?
R. Attraverso il dottor Meneguzzo. C’era anche Milanese. Con Milanese e Spaziante mi sono rivisto altre volte. Eravamo noi tre al residence Ripetta di Roma, quando ho consegnato i soldi al generale.
D. E’ da Spaziante che ha saputo di essere intercettato?
R. Sì, mi ha detto lui che i telefoni del Consorzio erano controllati.
D. Le ha detto anche il nome del pubblico ministero che faceva l’indagine?
R. Non mi ricordo se è stato lui.
D. Per trovare i 500 mila euro di Spaziante lei a chi si è rivoto?
R. Generalmente utilizzavo il canale di Baita.
D. Non si è rivolto anche a Flavio Boscolo, quando lo incontra a Roma il 26 maggio, a piazza Mincio?
R. Perché ci desse 500 mila euro? Era una cifra troppo grossa per lui.
D. No, gli parla della necessità di trovare questa somma e gliene chiede una parte.
R. E’ probabile. Flavio Boscolo è una persona che conosco da tantissimi anni, se c’era necessità mi rivolgevo anche a lui. Poi la cosa veniva gestita da Luciano Neri.
D. Boscolo sapeva a che cosa serviva il denaro?
R. Sì, certo. Flavio era una delle persone a cui ci si rivolgeva, per importi che non superavano i 100 mila euro.
D. Anche Neri era informato?
R. Neri era vicedirettore del Consorzio,a lui dicevo più cose che a Federico Sutto.
D. Per le consegne all’assessore Chisso provvedeva lei di persona o attraverso Sutto?
R. In entrambi i modi. Quando davo la busta a Sutto, la portava senza fare domande.
D. Ma si rendeva conto che non era un panettone e neanche la borsa della spesa…
R. Sì, sì,ma Neri per esempio era uno che chiedeva quanti soldi c’erano dentro.
D. Avete preso nel Consorzio la Socostramo di Erasmo Cinque, poi l’avete allontanata, poi ripresa.
R. Sì, perché io ero molto insoddisfatto.
D. Chi vi ha ordinato di prenderla?
R. Matteoli. Mi chiamò a colazione a Roma, assieme a Cinque. Ci teneva molto che Cinque lavorasse, il fatto è che questa azienda non lavorava, questo era il problema. Quando ha introdotto Baita, le robe sono andate a posto perché il lavoro lo faceva Baita e loro si mettevano d’accordo in un altro modo.
D. Oltre ai compensi in denaro ai Magistrati alle Acque, avete affidato anche collaudi alla Piva, Cuccioletta e D’Alessio?
R. Non mi ricordo quali.
D. Ma ricorda se erano dati come una forma indiretta di remunerazione?
R. Non li abbiamo mai conteggiati così. Certo era un modo per fare un favore. Alla Piva sono stati dati dei collaudi abbastanza importanti, a Cuccioletta non ricordo per quanto.
D. Non sa se a qualcuno di loro è stato dato il collaudo dell’ospedale All’Angelo di Mestre, anche se era fuori dalla competenza del Magistrato alle Acque?
R. No.
D. Quando facevate avere questi collaudi, presso chi bisognava intervenire perché l’incarico fosse affidato?
R. Se erano di competenza regionale, si faceva da Galan. Altrimenti bisognava risalire un po’, al ministero.
D. Per quelli regionali chiedevate direttamente a Galan?
R. Eh, sì.
D. Per la vicenda della turbativa d’asta, lei ha avuto rapporti preliminari con Paolo Costa al fine di predisporre il bando di gara?
R. Non mi ricordo. Con Paolo Costa ho trattato molto per quanto riguarda ilMose…
D. Ma sulle gare bandite dall’Autorità Portuale, lei aveva contatti con Paolo Costa?
R. Sicuramente sì.
D. Di che tipo?
R. Ma non… di tipo diverso da…
D. Parliamo della vicenda per cui lei ha avuto l’ordinanza di custodia cautelare: ci sono stati accordi preliminari tra lei e Costa?
R. L’unica stranezza che feci notare era che fissavano la disponibilità di un certo mezzo… mi sembrava una roba illecita indicarlo.
D. A chi fece questa osservazione?
R. L’abbiamo fatta come Consorzio

Renzo Mazzaro

 

Domani sarà interrogata Amalia Sartori

Sarà interrogata domani Amalia Sartori, 66 anni, di Vicenza, da mercoledì agli arresti domiciliari. È accusata di illecito finanziamento: secondo la procura di Venezia, avrebbe incassato 225 mila euro da Giovanni Mazzacurati, presidente del Cvs, per le sue campagne elettorali da eurodeputata di Fi e Pdl. Sartori, accompagnata dagli avvocati Zanettin, Moscatelli e Coppi, respinge con decisione le accuse.

 

L’INTERVENTO

di Carlo Giacomini – Docente Iuav

Caso Mose e Cvn, perché è illegittima la concessione

Molti, a Venezia e nell’intero Paese, per eliminare alla radice il centro di tanti comportamenti devianti,propongono di sciogliere il Consorzio Venezia Nuova, credendo forse, in buona fede e data la dimensione e importanza del Mose- e dell’intera Salvaguardia di Venezia e della sua laguna -, che il Consorzio sia pubblico o partecipato dal pubblico, oppure istituito e/o regolato da norme di natura pubblica. Purtroppo quel Consorzio è privatissimo, di totale proprietà privata dei suoi soci, e regolato tutto e solo dalle norme del diritto privato; ed è quindi impossibile (e inutile) pensare di sopprimerlo condecisione pubblica di natura meramente politica. Più appropriatamente, alcuni discutono e propongono di revocarne la concessione unica (e senza gara) di studi, piani, progetti e lavori (tutto insieme!), concessione di cui il Consorzio, dal 1984, in modo del tutto privilegiato ha goduto e lucrato (e continua a godere e lucrare) ricchissimi frutti ma senza motivo né merito e a spese (costosissime) della laguna e della città, e del pubblico erario. Idea e proposta che sarebbe corretta, se non fosse che quella concessione, come anche gli interessati sanno benissimo (e però tacciono), per legge è… già invalidata. E dal 1995. In quell’anno infatti, conilcomma1 dell’articolo 6 bis del decreto legge 1995 nº 96 (nel testo modificato dall’allegato dell’articolo 1 c. 1 della legge di conversione 1995 nº 206, entrato in vigore l’1giugno 1995e tuttora vigente), il Parlamento, dopo aver valutato dieci anni di esperienze (già allora negative) di quel sistema concessionale (voluto e deciso nel 1984 dal Presidente Craxi, vice Forlani, e dal ministro Nicolazzi coni colleghi De Michelis e Signorile) e dopo averne ricevuti giudizi negativi già allora sferzanti della Corte dei Conti, ha dichiarato «abrogati i commi terzo e quarto dell’articolo 3 della legge1984n º 798». Ha cioè abrogato proprio quei commi di legge coni quali, per l’attuazione delle opere statali di riequilibrio e salvaguardia della laguna( opere alle Bocche – barriere mobili comprese -, marginamenti, rinforzi, difese del litorale, interventi di riequilibrio e ripristino, apertura delle valli da pesca, e allontanamento del trasporto di petroli e derivati) era stata autorizzato il ricorso a una“concessione…a trattativa privata”. Tralasciando qui ilnon secondario dettaglio che anche nel 1984, “a trattativa privata” non equivaleva “a senza gara” (come invece qualcuno volle intendere, mistificando la legge), ciò che più conta è che dal 1995nonesiste più alcuna norma che consenta atti e disposizioni attuative di concessione a privati e che, quindi, quella concessione del 1984 è ormai dal1995 priva di ogni legittimazione e legittimità. Tanto che quella stessa legge del 1995 non ha chiesto e non ha previsto la necessità di alcun atto di revoca, a quel punto già allora ormai superfluo (in quanto ogni nuovo provvedimento di ulteriore concreto affidamento o finanziamento in concessione sarebbe ormai semplicemente privo di ogni copertura di legge, e quindi illegittimo e annullabile, se non già nullo). In altre parole, della revoca nonc’era e non c’è bisogno, perché quella concessione è, dall’1 giugno 1995, già abrogata e inefficace, avendo perduto il precedente appoggio di legge sulla quale si era basata. Tanto che la stessa legge del 1995 si è preoccupata solo di disporre la norma transitoria di sistemazione di quel (poco) che,con quella concessione, era già arrivato a esecuzione e attuazione tra il 1984 e il 1995: lo stesso Parlamento, conilcomma2 di quello stesso articolo di decreto legge, ha infatti disposto che “restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base delle disposizioni (abrogate)”. Disposizione doverosa riguardo agli impegni formali già perfettamente vincolanti assunti verso il privato. Ma,si badi bene, appunto solo per gli impegni formali già contrattualmente assunti verso il privato e già perfezionati e vincolanti al 31 maggio1995. Sono fatti salvi, quindi, solo gli impegni già oggetto di regolare atto di convenzione operativa già dotata di copertura finanziaria, ratificata e perfezionata entro il 31 maggio1995, sulla base delle leggi e deid ecreti di finanziamento promulgati ed emessi non oltre il 31 maggio1995. Diversamente da come il concessionario, e non pochi ministri e presidenti del Consiglio (e del Magistrato alle acque, e pure qualche magistrato amministrativo), inconsapevoli o conniventi, hanno voluto credere e leggere (ma forzosamente e senza giustificazione giuridica), tale disposizione transitoria non può valere da illimitata “tana libera tutti”; non può valere cioè come recupero della possibilità di affidamento in concessione anche oltre il 31 maggio1995, di ogni opera e intervento che per qualche appiglio esplicativo, narrativo o logico taluno cerchi di far apparire, a posteriori,come effetto o in connessione con le (poche) opere regolarmente e perfettamente già concesse (con tanto di atti stipulati,impegnativi e vincolanti) prima di quella abrogazione. In altre parole, il “fatti salvi” e il “restano validi” può essere applicato solo per gli impegni perfezionati e assunti direttamente ed espressamente con le convenzioni n. 6393, 6479, 6745, 7025, 7138, 7191, 7295, 1568, 1685, 7322 e 7395, sottoscritte tra il 1984 e il 1993, finanziate dalle leggi 171/1973, 798/1984, 910/1986, 67/1988, 360/1991 e 139/1992, per un importo complessivo massimo di 953,989 milioni di euro (al lordo delle quote riservate, su quegli importi, ai Comuni e alla Regione). E non invece per quanto taluna autorità ha voluto affidare in concessione (senza copertura di legge) conl e decine di convenzioni sottoscritte successivamente al 31 maggio1995 e finanziate tutte da leggi successive al 31maggio 1995 (ancorché fosse o sia stato fatto apparire logicamente connesso o materialmente integrato con qualche parte già in precedenza regolarmente concessa e finanziata). In pratica può esserci legittimazione e regolarità giuridico- amministrativa solo per gli interventi (e i relativi pagamenti) concessi e definiti in modo perfetto e completo fino al 31 maggio1995, per un valore, tutt’al più, nel complesso, di poco meno di un miliardo di euro (ma da ridurre delle quote di Regione e Comuni).Mentre erano e sono privi di copertura di legge e quindi legittimità tutti gli affidamenti in concessione, tutte le decine di convenzioni (e tutti i relativi pagamenti) sottoscritte dopo l’1 giugno1995 e appoggiate (ancorché illegittimamente) su leggi successive a quella data. Sino a oggi per ulteriori oltre 7,7 miliardi di euro (di cui 5,5 circa per il Mose, progetto approvato finanziato e convenzionato dopo il 2002). E questo, tanto più dopo il persino precedentecomma10 dell’articolo 12 della Legge 537 del 1993 (entrato in vigore l’1 gennaio 1994 e tuttora vigente), che aveva sancito che per tutti gli interventi della Salvaguardia di Venezia e della sua laguna“gli studi, le sperimentazioni, le pianificazioni, le progettazioni di massima, i controlli di qualità dei progetti esecutivi e delle realizzazioni delle opere, i controlli ambientali (anche mediante ispezioni), la raccolta dati e l’informazione al pubblico devono essere svolti informa unitaria” e quindi, inevitabilmente, attuatio quanto meno diretti e regolati solo dalla pubblica autorità competente, direttamente e senza più possibilità di affidamento“ unitario” in concessione“ unica” a privati. Disposizione efficace e cogente da allora, subito, senza bisogno di ulteriori disposizioni o norme delegate (come invece era necessario per il successivocomma11, che ipotizzava che tali attività e funzioni fossero poi affidate a una nuova società pubblica regionale-statale, per la quale invece espressamente occorrevano ulteriori norme e disposizioni). Tanto che, altrettanto immediatamente,proprio per questo “trasferimento” di cui alcomma10 (“restituzione” dal concessionario all’autorità pubblica concedente e naturalmente competente, di tutte quelle funzioni e attività strategiche, immediatamente cogente, e quindi a prescindere e anche prima e persino anche senza l’attuazione dell’ipotesi del comma11), dall’1 gennaio 1994 ilcomma12 (tuttora vigente) ha disposto che “il corrispettivo per le spese generali previsto dalle concessioni di cui all’articolo 3 della legge 798/1984 è ridotto dal 12 al 6 %”. Ai giudici qualcuno dovrà spiegare perché invece, ignorando queste disposizioni, in tutti questi successivi 20 anni si è voluto ribadire e proseguire con gli affidamenti in concessione al Consorzio Venezia Nuova,per di più riconoscendogli “corrispettivi” ancora del 12%invece che del 6%(per una immotivata regalia a privati, e un sovracosto per il pubblico erario, nel complesso, pari a circa 500 milioni di euro, per la sola differenza tra 12 e 6%, e pari invece a circa mille milioni di euro, considerando l’intero costo dei ‘corrispettivi’ di spese generali di concessione). Cen’è che basta per fermare ogni ulteriore atto amministrativo, liquidazione, finanziamento, collaudo delle opere affidate in concessione al Consorzio Venezia Nuova. Quanto meno fino a che non sarà fatta fino in fondo, nelle ragionerie e nei tribunali, una veritiera “resa di conti”. Nel frattempo di questa sospensione e “resa dei conti”, potremo finalmente verificare, con giudizi veramente esperti e finalmente “terzi”, cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa funziona e cosa non funziona del progetto Mose, come e quanto variarlo e correggerlo in corso d’opera, almeno in quello che ancora possiamo correggerlo.

 

martedì 8 luglio – C’è il premier in Arsenale pronto il corteo “Stop al Mose”

L’invito è “Tutti da Renzi”. L’appuntamento per le 10 di martedì 8, in campo dell’Arsenale, con un presidio «a microfono aperto», seguito da un corteo autorizzato fin dentro l’Arsenale, attraverso l’ingresso della Biennale e fino alle Gaggiandre. La manifestazione si concluderà così proprio di fronte alla Torre di Porta Nuova, dove il premier Matteo Renzi sarà in teleconferenza in occasione di Digital Venice 2014. Obiettivo della protesta – organizzata da il Comitato No Grandi navi, l’associazione Ambiente Venezia e dalla Rete civica contro le grandi opere – è quello di presentare al presidente del Consiglio un documento in cinque punti per chiedere: la fine della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova; una moratoria dei lavori alle bocche di porto; «un’ispezione tecnica sui lavori del sistema Mose affidata a una authority indipendente, che studi la possibilità di riconversione del sistema, mediante una variante in corso d’opera»; stop al progetto di scavo del canale Contorta dell’Angelo o di altri canali; grandi navi fuori dalla laguna e realizzazione di un nuovo avamporto alla bocca di porto del Lido. Lo scopo non è consegnare il documento a qualche portavoce, ma farsi ricevere dal premier. L’invito è esteso «a tutte le associazioni e i comitati della città e del Veneto, anch’esso martoriato da grandi opere e project financing del sistema Galan: «Dobbiamo contrastare quanto sta avvenendo con lo scandalo Mose:far passare il tutto solo come una questione di corruzione e concussione: le malversazioni sono avvenute per sostenere un progetto sbagliato, una grande opera inutile, che serve solo a chi la fa e che ha sottratto e sottrae risorse alla città, reddito e servizi ai cittadini ».

 

Nuova Venezia – Villa di Galan, svelati tutti i lavori

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

6

lug

2014

Villa Galan, svelati i segreti

Ecco tutti i lavori realizzati

Impianti nuovi, marmorini, stucchi e affreschi: l’edificio completamente rifatto

L’architetto Zanaica, che fu il direttore del cantiere, già sentito dalla Finanza

VENEZIA «Lui è amico di Gesù che moltiplicava i pani e i pesci. Gli ha insegnato il trucco anche con gli euro». La mordace battuta dell’imprenditore Paolo Sinigaglia, che per trascorsi politici conosce bene il laico Giancarlo Galan, dice tutto il disincanto con il quale è stata accolta la spiegazione pubblica che l’ex presidente del Veneto ha dato delle sue ricchezze. Quella trecentesca villa sui Colli Euganei, per esempio, dove è andato ad abitare. Per anni era stata il cruccio del precedente proprietario, Salvatore Romano, medico condotto e dentista di Lozzo Atestino, che si è svenato per rimetterla in sesto. Senza riuscirci. Dopo il restauro della struttura grezza, il consolidamento dei pavimenti e il rifacimento del terrazzo nella forma originale, cominciavano a scarseggiare i soldi. Per il tetto si era arrangiato alla bell’e meglio. Per l’impianto elettrico aveva provato a fare tutto da solo, passando i fili di notte, attaccando e staccando differenziali. Ne aveva fatto una malattia. Quando Giancarlo Galan acquista il complesso (il rogito dal notaio Franco Cardarelli di Abano è per 750 mila euro) deve rimettere mano a tutto. Non solo rifare l’impianto elettrico, perché manca la certificazione di conformità. Attraverso la Galatea snc, una società poi sciolta tra lui e la moglie Sandra Persegato, commissiona i lavori a un’impresa di Mestrino, la Tecnostudio dell’architetto Danilo Turato. Il quale è uno degli arrestati del 4 giugno. Motivo: sarebbe stato pagato con incarichi affidatigli dalla Mantovani Costruzioni all’epoca dell’ingegner Baita e liquidato con sovrafatturazioni. Secondo la Guardia di Finanza, tra questi incarichi c’era anche il nuovo mercato ortofrutticolo di Mestre e la sistemazione dell’area di via Torino. La Mantovani non tirava fuori il conquibus dai propri utili, bensì dalle opere pubbliche finanziate con i soldi delle tasse. Saranno contenti i mestrini del contributo dato. A seguire giorno per giorno i lavori nella villa Pasqualigo- Rodella-Galan, l’architetto Turato aveva delegato il collega Diego Zanaica, con studio a Lozzo Atestino. Un nome che finora non era circolato. Figurava solo quello di Turato. È Zanaica l’uomo che può elencare al centesimo i costi del restauro per le varie parti della villa: il corpo padronale, la barchessa e la chiesetta. Ed è quello che ha fatto alla Guardia di Finanza di Mestre. Zanaica è l’ultimo testimone ascoltato sulla vicenda della villa di Galan. «Sono stato chiamato e ho detto tutto», taglia corto al telefono. E se ne va in vacanza con la famiglia. A quanto risulta il professionista ha confermato che tutti gli interni di Villa Rodella sono stati radicalmente rifatti. I lavori sono durati quattro anni, non uno solo. Nel 2006 è stato completato il corpo padronale, 800 metri quadrati. Poi è stata rifatta la barchessa, completata nel 2008.Che è un’altra villa, con 750 metri quadrati coperti. Infine la chiesetta. In totale si arriva a 1700 metri. Non è stato un restauro normale. Il precedente proprietario aveva lasciato le pareti intonacate e bianche. Galan ha voluto in tutte le stanze del piano terra della villa le decorazioni in stile di fabbricato veneziano: balzorilievi tirati a stucco e decorati a mano, con marmorino e poi lucidati. Per dare un’idea, decorare con marmorino una parete dritta e non in rilievo, costa 40 euro a metro quadrato. Per una parete affrescata la stima a metro quadrato è almeno dieci volte superiore. Si aggiunga che le stanze di Villa Rodella, come tutti gli edifici storici, hanno altezze di quattro metri e mezzo, non di due e settanta. Poi c’è l’arredamento. I coniugi Galan hanno buon gusto e chiunque al posto loro, potendolo fare, avrebbe scelto il meglio. Lo studio dell’ex presidente per esempio è tutto in boiserie, coperto di pannelli in legno intarsiato. I lampadari delle stanze sono in vetro di Murano, si viaggia a decine di migliaia di euro. I mobili sono di antiquariato vero. I tappeti persiani hanno dimensioni e costi proporzionati, non vorremo mica sfigurare. La barchessa è stata rifatta totalmente. Sono stati tolti i pavimenti e i divisori precedenti, pensati per una clinica odontoiatrica dal dottor Romano. Galan e consorte l’hanno attrezzata a camere per un Bed and Breakfast agrituristico Poi c’è il giardino, la corte incassata con i marmi, un tappeto erboso di non meno di 6000 metri quadrati, piante e fiori. La vulgata per una gestione economica del parco, ha messo in giro che sarebbe affidato a due giardinieri pensionati. Mah, pèzo el tacon del sbrego. Finisce che qualcuno s’inventa che vengono pagati in nero. In realtà la villa ha un personale fisso: sono due filippini e una governante. Ovviamente in regola. Ma anche al netto di eventuale vitto e alloggio, questo personale ha un costo. Insomma, non è bastato ristrutturare la villa, bisogna anche mantenerla. Aggiungiamo l’impianto esterno di videosorveglianza, posizionato sull’intero perimetro della villa, da fare invidia ad una banca. È dotato di telecamere a raggi infrarossi, che percepiscono la presenza, ruotano nella direzione richiesta e inquadrano: scatta lo zoom con la messa a fuoco e la registrazione nella centrale interna di comando del sistema. Quanto è costato tutto questo? L’architetto Zanaica ha parlato per le opere edili di un milione e mezzo di euro, cifra che corrisponde al restauro di un’abitazione normale, indicato mediamente dai professionisti in 1000 euro a metro quadrato. Ma per Villa Pasqualigo- Rodella-Galan ci sono le finiture e tutto il resto. Una stima prudenziale non può andare sotto il 2000 euro a metro quadrato. Il che significa raggiungere i tre milioni e mezzo di euro, nei quali non ci stanno i costi delle altre case e proprietà immobiliari: dall’Appennino Emiliano a Rovigno e a Mali Lussini. Ma per le case in Croazia non c’è ancora un architetto Zanaica chiamato a testimoniare.

Renzo Mazzaro

 

l’interrogatorio dell’ex deputato che risponde ma nega tutto

Milanese: «Mai preso denaro»

Il contrattacco: Mazzacurati usò i soldi per comprare casa a Roma

VENEZIA – Ha scelto di rispondere e di controbattere alle accuse. E soprattutto ha sollevato la questione dell’illegittimità dell’ordinanza che lo ha portato in carcere, in quanto non emessa dal giudice naturale. Marco Milanese, ex deputato del Pdl e braccio destro dell’ex ministro Giulio Tremonti, arrestato venerdì scorso nell’inchiesta Mose, con l’accusa di aver intascato da Giovanni Mazzacurati una mazzetta da mezzo milione di euro, è stato sentito dal gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere per l’interrogatorio di garanzia. Milanese ha risposto per circa due ore alle domande del giudice. L’interrogatorio è avvenuto nel carcere della cittadina in provincia di Caserta. Secondo quanto riferito dal suo difensore, l’avvocato Bruno La rosa, Milanese ha risposto alle domande, anche se ritiene l’ordinanza di custodia cautelare in carcere illegittima. Secondo Milanese, tra le altre cose ex ufficiale della Guardia di Finanza, e il suo legale hanno fatto presente che l’ordinanza di custodia è stata emessa da un giudice incompetente. Infatti secondo l’accusa la mazzetta a Milanese, sarebbe stata consegnata da Mazzacurati all’ex parlamentare, a Milano. Di conseguenza la competenza spetta alla Procura e al Tribunale del capoluogo lombardo. Questa “obiezione” può essere facilmente superata nel momento in cui la Procura meneghina chiede e ottiene un’ordinanza per lo stesso reato nei confronti di Milanese. E in vista di questo il sostituto procuratore di Venezia Stefano Ancillotto, titolare con i colleghi Paola Tonini e Stefano Buccini dell’inchiesta, domani si recherà a Milano per consegnare il fascicolo relativo a Milanese. Durante l’interrogatorio di ieri l’imputato ha chiesto di poter ascoltare le registrazioni delle intercettazioni che lo coinvolgono e su cui si basano le esigenze cautelari sostenute dal gip veneziano che lo ha fatto arrestare. Ma ieri, il giudice campano, non ha potuto esaudire la richiesta in quanto non in possesso delle registrazioni. Milanese ha negato di aver ricevuto tangenti sostenendo tra l’altro di non aver potuto interferire su un finanziamento di 400 milioni di euro e di non aver avuto alcun ruolo nelle procedure relative al Mose. Inevitabile, a quel punto, la domanda del giudice su perché Giovanni Mazzacurati, allora, lo avrebbe coinvolto in questo modo pesante nella vicenda Mose. All’inizio Milanese ha spiegato di non sapere e di capire per quale motivo l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, lo ha tirato in ballo, pur non negando di conoscere bene Mazzacurati. Successivamente l’ex parlamentare ha dato una spiegazione, anche se poco dettagliata e fumosa. Ha ricordato che da alcune notizie di stampa emergerebbero intercettazioni in cui Mazzacurati si riferisce all’acquisto di un appartamento in piazza di Spagna a Roma di 250 metri quadri affermando che sapeva «come far uscire fuori i soldi dal consorzio». L’ipotesi prospettata da Milanese è che Mazzacurati avrebbe sostenuto falsamente di aver versato tangenti a Milanese, per mezzo milione di euro, per giustificare i soldi presi dai conti del consorzio per acquistare l’appartamento. Al termine dell’interrogatorio il suo legale ha chiesto la scarce- Marco Milanese, ex deputato di pdl razione di Milanese.

Carlo Mion

 

Sartori si aggrappa al salvagente deposita una memoria e tace

VICENZA L’interrogatorio è durato un amen. Lia Sartori è arrivata a palazzo di giustizia, a Vicenza, subito dopo mezzogiorno. Si è seduta davanti al giudice Stefano Furlani, che doveva sentirla per rogatoria. Ha depositato una memoria di alcune pagine e cinque minuti dopo si è allontanata sul Suv con cui era giunta a borgo Berga. Formalmente, si è avvalsa della facoltà di non rispondere: «Parlerò con i pubblici ministeri lagunari quando sarò una libera cittadina ». Sartori ha infatti chiesto l’immediata scarcerazione, con la revoca dei domiciliari. Due i motivi. «Il primo è che il giudice ha firmato il provvedimento nell’ipotesi della reiterazione del reato. In realtà, Sartori non solo non è più parlamentare europea, ma si è dimessa da ogni incarico pubblico che ricopriva». Il secondo è il decreto legge numero 92, entrato in vigore il 28 giugno scorso, ha cambiato le carte in tavola. Il provvedimento, chiamato anche “Salva Galan” dalle opposizioni al governo, esclude la misura cautelare se il giudice ritiene che all’indagato, quando ci sarà la sentenza, sarà disposta una pena che possa essere sospesa. Secondo i suoi legali, Sartori rientrerebbe a pieno titolo tra i beneficiari del provvedimento. Poi spiegherà.

 

Assicurazioni sanità

La Corte dei Conti apre un’inchiesta

Nel mirino il brokeraggio di Assidoge ad affidamento diretto

Garantiva 8-10 milioni all’anno: l’ipotesi è danno erariale

A destare sospetti le ricche provvigioni dal 10 fino al 14% ora scese tra 0,7 e 1%

La procura contabile si chiede perché si sia ricorso in esclusiva all’agente di Mirano

PADOVA Si alza il sipario su un altro capitolo della gestione della res publica da parte di Giancarlo Galan finché è stato governatore del Veneto. Stavolta è la Corte dei Conti veneziana a illuminare una delle tante zone grigie del quindicinale regno dell’ex Doge padovano. La Procura generale contabile ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di danno erariale. Nel mirino il mondo delle assicurazioni e la Sanità veneta. In particolare l’azione di Assidoge, la società di broker di Mirano (riconducibile a Giuliano Benetti, morto nel 2012 e ora venduta alla Cervit spa e trasferita a Roma) utilizzata da Galan in affidamento diretto per scegliere le compagnie di assicurazioni che successivamente partecipavano alle gare d’appalto «per la gestione stragiudiziale dei sinistri di Rct delle Aziende Usl ed ospedaliere del servizio sanitario regionale ». Consulenze costate in più di un decennio un fiume di denaro “carsico” (tra premi assicurativi e costi), perché tutt’ora impossibile da quantificare per poca trasparenza e collaborazione da parte dell’ente regionale. Tuttavia, il calcolo è semplice. Il monte assicurativo annuale della Sanità Veneta era (all’epoca) di circa 80 milioni di euro. Assidoge operava (quasi in regime di monopolio) con una provvigionedel10- 14% per cento. Tanto per dare un ordine di grandezza Assidoge nel 2006 era broker di 18 su 22 Usl e 1 su 2 aziende ospedaliere (quella di Padova). Facile ipotizzare che la società di Benetti intascasse per il servizio dagli 8 ai 10 milioni di euro all’anno. La Corte dei Conti veneziana ha chiesto alla Guardia di Finanza di fare chiarezza. Soprattutto dopo che il nuovo Governatore Luca Zaia ha bandito (nel marzo scorso) un concorso anche per la scelta del broker, vinto dall’americana Willis (in cordata con Arena) che offre le stesse prestazioni di Assidoge a un costo stupefacente: solo l’1% del monte assicurativo. L’altra concorrente, Marsh (provvigione dell’ 0,7%) ha ricorso al Tar, che si pronuncerà domani. Ma questa è un’altra storia. Tornando ad Assidoge, la domanda della Procura è: perché la Regione ha usato il broker di Mirano quasi in via esclusiva senza mai affidarsi al mercato? Detto che il Consiglio di Stato ha sentenziato più volte (su questioni simili) che l’affidamento diretto da parte di un ente pubblico per incarichi di brokeraggio è lecito (o, per lo meno, non è vietato), è evidente che le percentuali chieste da Assidoge per il servizio appaiano fuori mercato. Una cosa è certa: semmai la Procura contabile dovesse accertare il danno erariale non potrebbe chiedere alla Regione (che poi si dovrebbe rivalere sull’ex governatore) un risarcimento retroattivo per più di 7 anni. Causa prescrizione. Ma chi era Giuliano Benetti? Assidoge nasce nel 1994. Anno anche della discesa in campo in politica di Galan. Capitale sociale 20 milioni di vecchie lire. Benetti inizia come agente per la Ras, lavorando successivamente anche per i Lloyd’s. Poi il grande salto grazie all’amico Galan. Benetti si avvale di alcuni collaboratori. Tra questi Gianni Pesce, padovano, 70 anni, titolare della Pesce and Partners Insurance di Piazzetta Pedrocchi. Pesce, persona discreta e capace, è conosciuto anche come uno degli organizzatori delle feste annuali in Croazia, dove si ritrovava il gotha della sanità veneta. Appuntamenti che servivano per cementare amicizie e pianificare gli affari. Scriveva Mariano Maugeri sul Sole24Ore solo un mese fa. «La cordata celebrava la sua festa annuale in luglio nel parco nazionale di Brioni, in Croazia, isolotti selvaggi e mare cristallino a un tiro di schioppo da Rovigno, il buen retiro di Galan e molti veneti. Con tanto di organizzatori e sponsor, dalla banca Antonveneta alla valigeria Roncato, e la benedizione di monsignor Liberio Andreatta, amministratore delegato dell’opera romana pellegrinaggi ». Benetti e Pesce fanno prosperare Assidoge che oltre alla Sanità veneta mette le mani anche sui Comuni di Padova e Venezia e su società partecipata dalla Regione. Gli affari vanno a gonfie vele. Nulla e nessuno riesce a scalfire il dominio quasi assoluto. L’incarico è annualmente garantito. Così come il guadagno. Lo spartiacque è l’elezione di Luca Zaia a governatore. Altre agenzie di broker si fanno avanti. Tra queste anche la Hill Insurance riconducibile a broker napoletani e con sede a Gibilterra che fa una proposta a Adriano Cestrone (dg dell’Asl di Padova) e Fortunato Rao (dg dell’Usl 16). Il sospetto è dietro l’angolo: la Hill Insurance recede pur non emergendo nulla di significativo. Assidoge tiene stretto il patto. Fino a marzo scorso. Nel frattempo Giuliano Benetti non c’è più. Assidoge è stata venduta. E la compagna di Pesce, Maria grazia Clede, padovana, ha fondato Assibest srl, società di brokeraggio di Padova, si dice con l’obiettivo di sostituirsi ad Assidoge. Intanto si sono accesi i fari della Corte dei Conti. Non propriamente luci della ribalta.

Paolo Baron

 

Le palancole in ferro rilasciano inquinanti

Sono state infisse dal Magistrato alle Acque con il Consorzio. Lo rivela uno studio ambientale

VENEZIA In laguna sono aumentate le percentuali di metalli pesanti presenti nell’acqua. In particolare nelle aree vicine alla Zona industriale di Marghera. Lo rivela uno studio dell’Ufficio antinquinamento del Magistrato alle Acque. Concluso qualche anno fa con una serie di rilievi e studi, ma mai reso noto. Nel frattempo l’Ufficio è stato depotenziato, e il suo dirigente, Giorgio Ferrari, emigrato a Milano in un’azienda privata. Cosa diceva lo studio? Che se la laguna ha migliorato negli ultimi anni la sua qualità ambientale, anche per i depuratori e la diminuzione delle industrie chimiche, aumenta invece la concentrazione dei metalli pesanti a Marghera. Quale la causa? «Le palancole in ferro», scrivono gli esperti. Per i «marginamenti » dell’area inquinata delle fabbriche chimiche il Magistrato alle Acque con il Consorzio Venezia Nuova ne ha infisse decine di migliaia sui fondali della laguna. Dovevano essere provvisorie, in attesa degli interventi di disinquinamento. Ma si sono trasformate in protezione definitiva. Nel frattempo il ferro è arrugginito, i materiali sono stati aggrediti dalla salsedine e rilasciano inquinanti che vanno a depositarsi sul fondo. Decine di chilometri di «protezione» che in realtà andrebbero protetti dal degrado. Un fenomeno che invece passa abbastanza sotto silenzio. Ma che ha conseguenze disastrose per la qualità delle acque di gronda. Se è vero che il rilascio delle sostanze chimiche pericolose presenti nei terreni è stato bloccato, è anche vero che non si tratta di un sistema a costo zero. Eppure l’intervento era stato definitivo prioritario, e affidato dal Magistrato alle Acque e dal ministero per l’Ambiente con il suo direttore Mascazzini direttamente al Consorzio a partire dalla fine degli anni Novanta. Adesso le palancole invece di fermare l’inquinamento lo producono.

Alberto Vitucci

 

«Renzi sciolga il Consorzio»

Il premier oggi aVenezia. Manifestazione all’Arsenale

«Stop al Mose e a nuovi canali in laguna»

Una lettera aperta per fermare le grandi opere in laguna. Italia Nostra: adesso bisogna revocare la concessione unica

«Renzi fermi il Mose e le grandi opere che la città non vuole. Sospenda i finanziamenti del Cipe al Consorzio Venezia Nuova e istituisca una commissione di esperti indipendenti che dia risposte alle tante domande irrisolte sulle criticità del sistema Mose». Il premier arriva in laguna e comitati e associazioni sono pronti ad accoglierlo per rilanciare la loro richiesta, inascoltata da anni. Una «lettera aperta» al Presidente del Consiglio sarà consegnata dai comitati «Ambiente Venezia e No-Mose », che manifesteranno anche davanti all’ingresso dell’Arsenale dalle 10,30. «Chiediamo di votare subito, per affrontare con un nuovo governo della città tutti i problemi sul tappeto», dice il portavoce Armando Danella, «se Renzi vuole può farlo con un decreto. Nel frattempo vanno sospesi i finanziamenti e i lavori della grande opera e nel frattempo non vanno prese decisioni». Sulla stessa linea anche Italia Nostra, che ieri ha inviato a Renzi una lettera aperta firmata dalla presidente veneziana Lidia Fersuoch. «Quanto è successo a Venezia non ci meraviglia», scrive la presidente a Renzi, «perché da anni ci battiamo contro la concessione unica che ha permesso allo stesso soggetto di progettare, studiare e realizzare le opere. Nel frattempo stando all’inchiesta della Procura il Consorzio Venezia Nuova ha comprato il silenzio di molti, e in particolare di chi doveva controllare come il Magistrato alle Acque, tentando di far tacere gli irriducibili. Adesso occorre finalmente ascoltare i tecnici indipendenti che hanno sempre criticato l’opera. E dar vita a un nuovo Magistrato alle Acque, non più legato alle Infrastrutture ». Stop al Mose, dunque. Perché dopo le rivelazioni dell’inchiesta tutto va rivisto sottouna nuova luce. «Chiediamo rispetto per Venezia», continua la lettera di Italia Nostra, «anche per quanto riguarda la questione grandi navi». «Caro presidente », scrive ancora la Fersuoch, «le chiediamo anche di non imporre alla nostra città una nuova grande opera contro il parere della comunità scientifica e dei cittadini veneziani, come lo scavo di un canale in mezzo alla laguna per farci passare le grandi navi. Non sarebbe compatibile con la tutela della laguna prevista dalla legge». No al Contorta, dunque, grande opera voluta dal Porto per far passare le navi dirette in Marittima senza attraversare San Marco e il canale della Giudecca. Ipotesi che però non va bene neanche ai comitati Ambiente Venezia e “No Grandi Navi”. «Chiediamo di prendere in considerazione», dice Danella, «progetti più economici e compatibili, come il nuovo terminal a San Nicolò, fuori dalla laguna. Così si tutela la laguna e anche l’attività delle crociere». Ipotesi che il Comitato Cruise Venice però non condivide. E il suo presidente Davide Calderan consegnerà a sua volta una lettera al premier Renzi. Chiedendo la «tutela del lavoro e scelte coraggiose che possano difendere il comparto e i posti di lavoro». «Troppe incertezze e troppo tempo perso», scrive, «hanno causato alle nostre attività soltanto danni». Non ultimala scelta della Costa crociere di dirottare alcune grandi navi su Trieste. «La responsabilità», replica Silvio Testa, ex portavoce del Comitato, «è di chi invece di trovare alternative praticabili ha insistito in questi anni con ipotesi distruttive come lo scavo di nuovi canali. Noi non siamo contro le crociere, ma contro le navi incompatibili».

Alberto Vitucci

 

Premier all’Arsenale dalle 10,30. Fuori manifestazione anti-Consorzio

Sarà una toccata e fuga quella di oggi a Venezia del presidente del Consiglio Matteo Renzi in occasione della Digital Venice Week, la manifestazione in programma in laguna fino al 12 luglio che è la prima del semestre italiano di Presidenza dell’Unione Europea. Renzi prenderà parte dalle 10.30 alle 12.30 all’Arsenale a una riunione con il vicepresidente della Commissione europea Neelie Kroes a cui prenderanno parte altri rappresentanti di governi europei, in cui verrà discussa la “Carta di Venezia”, un memorandum sui punti chiave per le strategie sulle politiche digitali in Europa. Ma è probabile che nell’occasione Renzi anticipi anche, a margine, alcuni dei programmi per il semestre italiano di presidenza europea. Ma già nella tarda mattinata o al più tardi nel primo pomeriggio Renzi, dovrebbe lasciare Venezia per tornare subito a Roma. Presenti per la Digital Venice Weekanche i ministri Beatrice Lorenzin, Federica Guida e Marianna Madia. I comitati, riuniti in campo all’Arsenale, manifesteranno invece chiedendo al premier di sciogliere il Consorzio Venezia Nuova e bloccare il Mose.

 

Mostra fotografica di Gianni Berengo Gardin

Il Fai “espone” il problema grandi navi

Anche il Canale della Giudecca proposto tra i Luoghi del Cuore italiani da tutelare

Il Fai – il Fondo per l’Ambiente Italiano – prende decisamente a cuore il problema del passaggio delle Grandi Navi per il Bacino di San Marco e il Canale della Giudecca. Venerdì alle 12 infatti a Villa Necchi Campiglio, a Milano, verrà inaugurata la mostra fotografica «Mostri a Venezia», dedicata proprio alle immagini delle grandi navi da crociera che passano di fronte a Piazza San Marco scattate dal grande fotografo veneziano Gianni Berengo Gardin. Le ventisette fotografie di Berengo Gardin che saranno esposte in mostra ritraggono appunto il quotidiano passaggio delle mastodontiche navi da crociera nel Canale della Giudecca. Un segno forte che il Fai intende lanciare in un momento cruciale per le decisioni del Governo sul problema del passaggio delle Grandi Navi all’interno di Venezia e che coincide anche con l’avvio della nuova campagna del Fondo per la scelta dei Luoghi del Cuore, quelli che cioè gli Italiani amano maggiormente e che sono invitati a votare, proprio per garantirne la tutela. E proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema del passaggio delle Grandi Navi da San Marco, il Fai avrebbe già inserito tra i nuovi Luoghi del Cuore che potranno essere indicati dai cittadini anche il canale della Giudecca, per sottolineare così la necessità di difendere – attraverso la principale arteria acquea a fianco del Bacino di San Marco – l’integrità dell’intera Venezia e la sua immagine, messa a repentaglio per molti proprio dal passaggio delle grandi navi da crociera. Un tema caro anche a Ilaria Borletti Buitoni, già presidente del Fai e ora sottosegretario ai Beni Culturali.

 

L’OPINIONE – Silvio Testa- Autore dei libri “E le chiamano navi” e “Invertire la rotta”

Grandi navi, soluzioni devastanti a Venezia

Se Costa Crociere va a Trieste la colpa non è di chi a Venezia si è opposto a un crocierismo incompatibile proponendo da subito soluzioni alternative ambientalmente sostenibili, rapide da realizzare, che garantirebbero lavoro, indotto, il futuro della Marittima, ma di chi come i ministri Clini (arrestato), Passera, Lupi, la Regione col presidente Zaia e l’assessore Chisso (arrestato), il sindaco Orsoni (arrestato), i presidenti dell’Autorità Portuale, Costa, e della Venezia Terminal Passeggeri, Trevisanato, si sono ostinati per tre anni a sostenere l’indifendibile avanzando “soluzioni” devastanti per la laguna e per la città. Senza dimenticare i sindacati. Paolo Costa è uno dei padrini del Mose,mala sua storica predilezione per il progetto non dovrebbe impedirgli di vedere quanto l’odierno frusciare di tangenti e tintinnare di manette sia frutto anche di una procedura totalmente anomala e costellata di forzature politiche come quella di cui fu protagonista egli stesso il 4 aprile del 2003 quando, in Comitatone, guidò la trasformazione del no del consiglio comunale al Mose in un sì subordinato a undici condizioni “impossibili” che avrebbero imposto una radicale revisione del progetto. Infatti gli undici punti caddero nel dimenticatoio già a partire dal giorno dopo, senza che nessuno in città ritenesse di trarne qualche conseguenza. Vogliamo imparare qualcosa dalla lezione? Continuare con le forzature ambientalmente insostenibili e maturate nel clima e nelle logiche che oggi tutti dicono di voler cancellare? Vogliamo scavare il Contorta Sant’Angelo o, peggio, il folle canale dietro la Giudecca, dato che altre soluzioni, come dice Lupi in un’intervista,sono impraticabili perché così sostiene l’Autorità portuale, cioè Costa stesso? Non sarà il caso, invece, di avviare finalmente un percorso aperto, trasparente, partecipato che eviti le forzature e rimetta le scelte in una carreggiata corretta? Se le cose stanno così, è possibile tenere un Comitatone al quale non partecipi il sindaco della città ma un commissario che dovrebbe limitarsi alle scelte di ordinaria amministrazione? È possibile decidere il futuro della città e della laguna fondandosi su quei progetti che incidentalmente e verrebbe da dire quasi per caso sono sul tavolo senza fare un bando che inviti le migliori intelligenze a risolvere il problema delle grandi navi in laguna prendendo in considerazione anche l’estromissione di quelle incompatibili e incardinando le soluzioni nelle procedure ordinarie? È possibile disegnare il futuro della portualità veneziana senza redigere un nuovo Piano regolatore portuale da sottoporre a Valutazione ambientale strategica e a Valutazione di impatto ambientale? Renzi dovrebbe andarci con i piedi di piombo, se non altro perché, fin che Costa non presenta alla città le carte anziché limitarsi alle dichiarazioni, il progetto di scavo del Contorta vede coinvolti nella sua progettazione gli stessi soggetti al centro dello scandalo del Mose: Magistrato alle Acque, Consorzio Venezia Nuova(e studi professionali vicini), Mantovani. La delibera regionale che chiede di incardinare il progetto nella legge obiettivo è dell’assessore Chisso, ancora agli arresti. Tutto ciò non vorrà dire nulla, ma sul fatto che anche quel progetto sia figlio appunto di quel clima e di quelle logiche che ora vanno respinte non ci piove. Non si tratta di togliere dal cesto qualche mela marcia e poi continuare tutto come prima: bisogna cambiare cesto. Voltare pagina. Ripristinare il buon senso, finora asservito al potere delle lobby.

 

l’intervento

di Gianfranco Bettin – Assessore alla Cittadinanza digitale 2010/2014 Comune di Venezia

Renzi e il summit europeo Venezia capitale digitale

‘‘Il ruolo della nostra città è stato conquistato negli anni dall’azienda “Venis” con forti investimenti

Lo scandalo Mose non può cancellare certi risultati

La banda del Mose e la banda larga a fibre ottiche, una cricca di corruttori e corrotti e l’infrastruttura più innovativa sviluppata dalla città in questi anni, si fronteggiano mentre si apre il “Digital Venice 2014”, che vedrà oggi all’Arsenale la presenza di Matteo Renzi. Non è certo per caso che l’importante summit europeo si tiene a Venezia. La città l’ha ottenuto per il suo ruolo d’eccellenza nel contesto digitale italiano ed europeo. Un ruolo conquistato sul campo, insieme alla propria azienda “Venis”, con fortissimi investimenti (circa 14 milioni di euro in pochi anni) che hanno seminato 126 kmdi cavo a 144 fibre ottiche, altri 60 km di cavo a 12/14 fibre per rilegamenti di sedi pubbliche, centinaia di hotspot sia outdoor (oltre 200) che indoor (oltre 70, in biblioteche, sedi civiche, musei, uffici giudiziari ecc.), che hanno consentito la formazione di una eccezionale “comunità civica digitale” (circa 40 mila cittadini residenti e oltre 11 mila city users, coloro che vengono in città per studio o lavoro), centri di alfabetizzazione digitale presenti in tutta la città perché superare il “digital divide” significa sia investire nell’infrastruttura sia promuovere, anche presso i non “nativi digitali” l’uso degli strumenti informatici e della Rete. A questo investimento strutturale, quasi unico nel suo genere in Italia da parte di una amministrazione pubblica, si affianca la più solenne dichiarazione d’impegno, nello stesso Statuto del Comune, a considerare “Internet un’infrastruttura essenziale per il diritto di cittadinanza” e quindi a garantirne l’accesso “in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che lo impediscono, ad adottare “procedure atte a favorire la partecipazione dei cittadini all’azione politica e amministrativa tramite internet” favorendo “la crescita della cultura digitale con particolare riguardo alle categorie a rischio di esclusione”. In coerenza, il Comune, in collaborazione con attivisti digitali e gruppi di partecipazione molto attivi in città (come il gruppo #opendatavenezia e la Consulta delle cittadine) ha approvato un Regolamento sulla pubblicazione, l’accessibilità telematica e il riutilizzo dei dati pubblici (open data) fra i più avanzati d’Italia, che dispone la pubblicazione dei dati presenti nelle banche dati comunali e ne consente il libero utilizzo, oltre a essere socio fondatore di “Free Italia WiFi” la rete nazionale di amministrazioni che – insieme a una rivista come “Wired” e a innumerevoli realtà di base impegnate per la cittadinanza digitale – chiedono una svolta nell’insufficiente politica dei governi nazionali in questo campo, in cui l’Italia è ancora molto indietro in Europa e nel mondo, come ha ricordato qui Claudio Giua. Per questi motivi e con questi titoli Venezia ha chiesto e ottenuto di ospitare l’evento europeo. Matteo Renzi è bene che lo sappia, attento com’è alle potenzialità della Rete, strumento vitale di formazione, comunicazione, trasparenza e democrazia nonché infrastruttura decisiva di sviluppo socio-economico e culturale. Lo scandalo – finalmente scoppiato – e l’indagine della Procura – finalmente giunta a scoperchiare il marcio, in città come, anzi soprattutto, in Regione e nei Ministeri romani – non possono offuscare tutto questo. Se Renzi vuol farci un augurio, nel difficilissimo momento attuale, ci dica non tanto “state sereni” (ironici scongiuri a parte) quanto “state serenissimi”, cioè siate all’altezza delle vostra storia, tra attenzione agli elementi basici dell’ecosistema lagunare (il contrario del Mose) e investimento lungimirante sulle nuove tecnologie. Lo stesso che ci aspettiamo dal governo nazionale.

 

IL RETROSCENA – Baita e quella strana richiesta degli avvocati «Fatti operare»

Piergiorgio Baita rivela: «Gli avvocati mi consigliarono un intervento chirurgico all’aorta e così avrei rinviato l’interrogatorio. Ma io volevo parlare e uscire al più presto di prigione».

MESSAGGINO «C’è la norma per il Mose. Avverti il nostro amico». E’ il testo di un sms inviato da Marco Milanese al manager di Palladio Finanziaria Roberto Meneguzzo.

INDAGINI – L’ex consigliere del ministro Tremonti, arrestato l’altro ieri, comparirà domani davanti ai giudici. Si cerca di fare chiarezza sulla tangente che gli sarebbe stata pagata da Mazzacurati.

I DIFENSORI – Dissi che non mi sarei ricoverato, loro rinunciarono all’incarico per incompatibilità

LA VISITA – I cardiologi mi misurarono solo la pressione. La parcella? 15mila euro

Baita: volevano che mi operassi per rinviare l’interrogatorio

Gli avvocati Longo e Rubini erano preoccupati per la salute del manager della Mantovani

Ma lui rifiutò: «Sono iperteso ma non sto così male, voglio parlare e uscire presto di prigione»

Lui voleva vuotare il sacco, i suoi avvocati invece volevano che il sacco restasse ben chiuso. Per il suo bene, ovviamente. Per studiare le carte e decidere il da farsi. Ma siccome c’era in ballo un interrogatorio e Piergiorgio Baita era deciso a parlare, i suoi legali gli hanno proposto un ricovero in clinica per un intervento all’aorta. Subito dopo Baita ha cambiato avvocati. Si scopre anche questo leggendo le carte della maxi inchiesta sul Mose e cioè che il principale accusatore, l’uomo che ha inventato il sistema delle tangenti e lo ha smantellato, il genio della “retrocessione” e della “sovrafatturazione”, una volta arrestato non aveva alcuna intenzione di marcire in carcere. E, dunque, Piergiorgio Baita dice ai suoi difensori, Piero Longo e Paola Rubini che ha intenzione di parlare. I due legali lo sconsigliano e gli propongono una operazione al cuore se vuole evitare l’interrogatorio. Ma lui, Baita, non aveva nessuna intenzione di operarsi. «Ma assolutamente! Io strutturalmente sono un iperteso, però ho una pressione che è controllata dai farmaci, e ho rifiutato» – spiega Baita ai pm Stefano Ancillotto e Stefano Buccini. Peccato perché, stando sempre al racconto di Baita, i due legali avevano già in testa il posto giusto per l’intervento, la clinica Gallucci di Padova ovvero uno dei migliori centri cardiologi d’Europa. Volevano trattarlo con i guanti, si preoccupavano della sua salute e lui equivoca «è stato quello che io ho preso paura» – dice ai magistrati. Peraltro i legali si erano anche preoccupati di controllare il suo stato di salute mandandogli in carcere un paio di cardiologi, proprio per preparare il ricovero. Ma Baita, poco riconoscente, li liquida così: «I cardiologi che sono venuti mi hanno misurato la pressione, non mi hanno visitato, eh. Mi hanno misurato solo la pressione, che l’hanno trovata, tra l’altro, regolare».
I pm con sottile perfidia chiedono: «Quindi tutta la visita che poi avrebbe portato a un’operazione chirurgica sarebbe da considerare una misurazione di una pressione?».
La risposta di Baita: «Sì. E anche con una parcella importante: di 15mila euro».
DOMANDA – «Per misurarle la pressione?»
RISPOSTA – «Sì».
DOMANDA – «Dopodiché questi cardiologi o comunque i suoi difensori cosa le hanno proposto?»
RISPOSTA – «No, quando… sono stato io che gli ho detto che non mi sarei mai fatto ricoverare. Se per non rendere un interrogatorio dovevo farmi operare, io rendo l’interrogatorio, perché non avevo nessun tipo di remora nel… E a quel punto hanno rinunciato, quindi spiegandomi che c’erano delle incompatibilità con delle persone».
L’avvocato Piero Longo divide infatti lo studio con Niccolò Ghedini (assieme al quale è legale di Silvio Berlusconi) di cui è stato maestro. Secondo gli avvocati Longo e Rubini – che smentiscono decisamente la ricostruzione fatta da Baita e parlano di “enfasi accusatoria” da parte dell’ex amministratore delegato di Mantovani – la rinuncia al mandato da parte loro avvenne nello stesso momento in cui Baita li avvertì che aveva intenzione di collaborare con la magistratura veneziana. «L’incompatibilità, a termini di codice deontologico, era determinata dal fatto che l’ing. Baita, nostro storico cliente, era perfettamente a conoscenza che, nostro cliente da molti anni, era anche il Consorzio Venezia Nuova e l’ing. Mazzacurati. Tutto il resto è pura fantasia». Resta il fatto che Baita, proprio di Ghedini ha parlato in uno dei suoi interrogatori. Di Ghedini e della sua irritazione per il fatto che a Forza Italia non arrivano contributi sufficienti dal Consorzio.

 

LO SCANDALO – Quell’sms a Meneguzzo (Palladio): «C’è la norma sul Mose. Tranquillizza il nostro amico»

I misteri dell’ex consigliere di Tremonti

I pm vogliono capire che fine abbia fatto la mazzetta da mezzo milione che Mazzacurati avrebbe pagato a Milanese

La tangente doveva servire per sbloccare i fondi del Cipe destinati alle dighe mobili

IL VICENTINO – Il manager teneva i contatti per conto del capo del Cvn

L’avviso a Meneguzzo: «C’è la norma Mose, tranquillizza l’amico». E al Consorzio si preparava la mazzetta

Un sms incastra Milanese

DOMANI – Tangente di 500mila euro, l’ex consigliere di Tremonti davanti al giudice di Napoli

IL FASCICOLO – I nodi per i pm di Milano: la destinazione dei soldi e il ruolo dell’ex ministro

MARCO MILANESE – Nato a Milano nel 1959, avvocato, già ufficiale della Finanza. Nel 2001 entra a far parte dello staff del ministro dell’economia Giulio Tremonti. Aderisce poi a Forza Italia

Sarà interrogato domani mattina dal gip di Napoli, Marco Milanese, consigliere politico fino al 2011 dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti, arrestato con l’accusa di corruzione in relazione ad una presunta “mazzetta” di 500mila euro che il presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, sostiene di avergli versato a Milano, il 14 giugno del 2010, nella sede della Palladio Finanziaria, in cambio del suo aiuto per sbloccare i fondi del Cipe destinati alla prosecuzione del Mose.
Milanese potrebbe avvalersi della facoltà di non rispondere, riservandosi di parlare di fronte ai pm di Milano, Roberto Pellicano e Luigi Orsi, ai quali i colleghi veneziani Paola Tonini, Stefano Buccini e Stefano Ancilotto, hanno già trasmesso gli atti per competenza territoriale. Il gip di Venezia, Alberto Scaramuzza, ha disposto l’arresto dell’ex onorevole del Pdl in via d’urgenza per evitare «un intenso pericolo di reiterazione» di reati dello stesso tipo. Ma, entro 20 giorni, il provvedimento dovrà essere rinnovato dal gip di Milano, al quale spetterà anche il compito di confermare il sequestro dei suoi beni fino all’ammontare di 500mila euro.
Assieme a Milanese risulta indagato per corruzione anche il vicentino Roberto Meneguzzo (agli arresti domiciliari): Mazzacurati ha raccontato, infatti, che fu il manager della Palladio Finanziaria a metterlo in contatto con il collaboratore di Tremonti, spiegandogli che bisognava pagare. E, pochi giorni fa, Stefano Tomarelli della società Condotte, ha confermato ai pm veneziani che Mazzacurati gli disse di aver «dato del denaro a Milanese… per Mazzacurati era un problema fondamentale riuscire ad arrivare a convincere il ministro Tremonti che le cose, i finanziamenti potessero andare avanti…»
L’allora ministro dell’Economia non risulta indagato: spetterà alla Procura di Milano approfondire la sua posizione. Se risultasse confermato che Milanese ha davvero intascato quei soldi, bisognerà capire se li ha tenuti per sé o se siano finiti (in parte o integralmente) ad altri. E soprattutto a chi.
Mazzacurati nei suoi interrogatori dichiara di aver parlato di soldi soltanto con Milanese. Ma racconta di aver incontrato anche Tremonti, nella sede del ministero dell’Economia, a Roma. A condurlo dal ministro sarebbe stato proprio Milanese.
I contatti telefonici tra Milanese e Meneguzzo furono numerosi in quel periodo, così come quelli tra Meneguzzo e Mazzacurati. «Al Consiglio di domani c’è la norma per il Mose. Avverti il ns amico e tranquillizzalo!», scrive Milanese il 24 maggio 2010 via sms all’ad di Palladio, il quale inoltra il messaggio a Mazzacurati. Il 25 maggio il Cipe approva il finanziamento per il Mose e lo stesso giorno al Cvn si svolge una riunione per raccogliere i soldi da versare a Milanese.
Alcuni colloqui telefonici intercettati dalla Finanza nei giorni successivi confermano, secondo gli inquirenti, la dinamica dei fatti contestati. Il 28 maggio Meneguzzo telefona al presidente del Cvn per sapere «… come stava procedendo questa cosa». E Mazzacurati gli risponde che «…sembra tutto a posto …non ho ben capito sui tempi». Nello stesso colloquio il presidente del Cvn conferma di aver parlato con Tremonti: «… quel giorno del mio colloquio… col ministro… ho detto esplicitamente che c’erano parecchi lavori finanziati che non partivano… che erano in ritardo di tre anni…»

Gianluca Amadori

 

A proposito di… 

LO STATO DI SALUTE DI RENATO CHISSO

Vorrei rispondere agli amici di Renato Chisso in merito alla loro preoccupazione per la salute di Renato. Che non stia bene è normalissimo, si è mai visto un politico in carcere che goda di ottima salute? Ma questi signori si sono mai preoccupati della salute di quei piccoli imprenditori che si sono suicidati per aver perso tutto, oltre alla salute anche la propria dignità, grazie alla cosidetta crisi economica? Secondo me se i politici incriminati fossero sati persone oneste, non saremmo in queste condizioni disastrose e molti dei colleghi suicidatisi a causa loro sarebbero ancora in vita a dar lavoro a onesti cittadini. Concludo con un augurio a Renato: tieni duro e pensa alla salute che un pò di carcere fa bene a te e a tutti noi onesti cittadini.

Vincenzo Battaiotto – Cavallino Treporti

 

La precisazione

NESSUN CONTRIBUTO DAL CONSORZIO

In relazione alle notizie apparse nel Gazzettino, che affermano che il Consorzio Venezia Nuova avrebbe finanziato in più occasioni “Regata Storica” e “Redentore” mi sento di poter escludere che negli anni (2010, 2011, 2012, 2013) in cui ho personalmente seguito tali eventi, da assessore al turismo e alle tradizioni, il mio assessorato abbia ricevuto alcun contributo dal Consorzio. Sarebbe gradito, per il rispetto della verità, che venissero precisate le edizioni che sarebbero state oggetto di eventuale contributo.

Roberto Panciera – già assessore Comune di Venezia

 

«Sciogliere il Consorzio. E diciamo no al Mose»

ALL’ARSENALE – Presidio dei Comitati per l’arrivo di Renzi

VENEZIA – Un presidio davanti all’ingresso dell’Arsenale e un corteo contro le grandi navi e i lavori del Mose, alla luce dell’inchiesta della procura di Venezia, è stato deciso da alcuni comitati ed associazioni in occasione martedì dell’inaugurazione di ‘Digital Venice’, con la prevista presenza del premier Matteo Renzi.
Al premier saranno avanzate cinque proposte: scioglimento della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova; moratoria dei lavori alle bocche di porto; ispezione tecnica sui lavori del sistema Mose affidata a una Authority indipendente che studi la possibilità di riconversione del sistema; no ad altri scavi in laguna; grandi navi fuori della laguna in un avamposto alla bocca di porto del Lido. Oltre alla richiesta di elezioni comunali a ottobre, i firmatari indicano che intendono essere ricevuti da Renzi.

 

VENEZIA – I centri sociali “aspettano” il premier Renzi

L’appello è alla mobilitazione generale. Tutti contro il Mose, contro il Consorzio Venezia Nuova e contro le grandi opere nel Veneto approfittando della “grande vetrina” del Digital Week 2014, il grande incontro che inizia domani alle Tese dell’Arsenale organizzato dall’Unione Europea e dal governo italiano che da pochi giorni è alla guida del semestre europeo alla Presideza di Bruxelles.
Così, proprio in queste ore, le associazioni dell’arcipelago ambientalista e della sinistra antagonista e no global hanno lanciato un vero e proprio appello internazionale affinchè ci sia una “accoglienza” di protesta, All’incontro internazionale, oltre ad esperti ed economisti, sarà presente anche la vicepresidente della Commissione europea Neelie Kroes. Infatti il tam tam degli antagonisti, e che sarà enfatizzato anche nelle prossime ore, sarà quello di invitare più gente possibile ad un presidio allestito per martedì 8, alle 10, in campo dell’Arsenale davanti alla Porta dei Leoni per poi raggiungere l’ingresso dell’Arsenale (dove vi è l’entrata dei padiglioni della Biennale) e da lì raggiungere l’area delle Gaggiandre di fronte alla Torre di Porta Nuova (comunque al di qua dell’acqua) di fronte alle Tese dove vi saranno Renzi e Kroes, per una manifestazione di protesta. E sul piatto della bilancia, la manifestazione metterà praticamente tutti i temi legati a queste ultime settimane dallo scandalo Mose fino alle grandi opere.
«Abbiamo cinque obiettivi imprescindibili da imporre a Matteo Renzi – si dice in una nota delle associazioni ambientaliste e no global – Noi puntiamo e rivendichiamo lo scioglimento del Consorzio Venezia Nuova; la moratoria sui lavori alle bocche di porto; l’ispezione tecnica sul sistema Mose affidata ad una authority indipendente che studi le possibilità di riconversione mediante una variante in corso d’opera; il no deciso allo scavo del canale Sant’Angelo Contorta e a qualsiasi altra via d’acqua, e lo stazionamento delle grandi navi fuori dalla laguna all’altezza della bocca di porto di Lido. Infine chiediamo che una delegazione venga ricevuta dal premier Renzi». L’appello alla mobilitazione è stato finora sottoscritto da Comitato No Grandi Navi-Laguna Bene Comune, Associazione Ambiente Venezia e Rete Veneta contro le Grandi opere. «Ribadiamo la nostra posizione anche sulle vicende che riguardano il comune di Venezia – dicono le associazioni – Per noi si deve andare al voto al più presto, già nel prossimo autunno».

 

8 luglio 2014 ore 10 – Tutti da Renzi

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Nuova Venezia – Mose, arrestato l’uomo di Tremonti

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Mose, arrestato l’uomo di Tremonti

In cella l’ex deputato Marco Milanese, sequestrati beni per500mila euro

Arrestato Milanese, dirottò i fondi del Cipe

L’ex braccio destro di Tremonti accusato di aver incassato mezzo milione

Il giudice ha chiesto anche il «sequestro per equivalente» di 500 mila euro

L’ex ufficiale della Gdf continua a intessere rapporti con militari politici e faccendieri

VENEZIA – Il trentacinquesimo arresto è scattato ieri, a un mese dagli altri, in un ristorante romano all’ora del pranzo. È quello di Marco Milanese, accusato di corruzione. I finanzieri del Nucleo di Polizia tributaria di Venezia lo hanno cercato per l’intera mattinata e alla fine lo hanno rintracciato nel locale della capitale e poi trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: in realtà, la richiesta di arresto per Marco Milanese, ex ufficiale della Guardia di finanza, ex consigliere dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti ed ex parlamentare di Forza Italia, era stata avanzata già nel dicembre dello scorso anno, assieme a tutte le altre, ma poi i pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini avevano revocato la richiesta perché c’erano alcune telefonate intercettate sui cellulari di Giovanni Mazzacurati e di Roberto Meneguzzo in cui spuntava la voce di Milanese, all’epoca parlamentare, che non poteva essere intercettato neppure indirettamente. Il 10 giugno scorso hanno riproposto al giudice veneziano Alberto Scaramuzza l’arresto, evitando di utilizzare quelle intercettazione e usando i nuovi interrogatori degli arrestati, come quello dell’amministratore della «Palladio Finanziaria», il vicentino Roberto Meneguzzo, e quello dell’imprenditore romano Stefano Tomarelli di «Condotte». Il Tribunale del riesame, però, la settimana scorsa aveva spiegato che proprio la tangente di 500 mila euro a Milanese il presidente del Consorzio Venezia Nuova aveva raccontato di averla consegnata a Milano, nella sede nel capoluogo lombardo della «Palladio» di Meneguzzo. Dunque a indagare dovevano essere i pubblici ministeri di Milano e per questo i giudici veneziani avevano spedito per competenza territoriale a Milano il fascicolo che riguarda Milanese, Meneguzzo e il generale della Guardia di finanza Emilio Spaziante. Così, il giudice veneziano Scaramuzza, nella sua ordinanza di custodia cautelare, ha dovuto spiegare che c’era «l’urgenza a provvedere, nonostante la dichiarazione di incompetenza territoriale ». «Nonostante Milanese fosse ormai perfettamente a conoscenza dell’indagine a suo carico », scrive il magistrato lagunare, «stando all’ultima integrazione della Procura del 2 luglio, ha continuato anche di recente in comportamenti analoghi a quelli del passato: contattando un elevatissimo ufficiale della Guardia di finanza per influire su dinamiche interne ai corsi dell’Accademia, ottenendo quanto richiesto; continuando a contattare utenze del Comando generale della Guardia di finanza a Roma; venendo contatto da appartenente al Nucleo di Polizia tributaria di Roma, che gli chiede come favore di intervenire su una questione relativa alla sospensione da parte del ministero della Salute di un decreto autorizzativo per imbottigliare e commercializzare un’acqua minerale, organizzando per questo motivo incontri riservati». Per il giudice «tutto ciò conferma che Milanese è ancora in grado adesso di contare su elevatissime relazioni che gli permettono di interloquire e soprattutto di interferire nell’esercizio di pubblici poteri per interessi privati, nonostante i precedenti e le pendenze giudiziarie. Questo rende indispensabile emettere subito la misura richiesta contestualmente alla dichiarazione di incompetenza ». A Milanese, per cui c’è la richiesta di sequestro di beni per 500 mila euro, nell’ordinanza veneziana, viene contestato di aver agito con «atti contrari ai doveri d’ufficio nel far inserire tra gli stanziamenti inclusi nella delibera del Cipe numero 31 del 2010 e nei decreti collegati anche la somma relativa ai lavori gestiti dal Consorzio, inizialmente esclusi dal ministro dell’Economia Tremonti, in cambio del pagamento di 500 mila euro dallo stesso Milanese sollecitato: somma che gli veniva consegnata personalmente da Mazzacurati. Tutto questo grazie all’intermediazione di Meneguzzo che si attivava per mettere in contatto i due». A riferire con dovizia di particolari, ad esempio che i 500 mila euro erano dentro una scatola, sono stati Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita. Meneguzzo, oltre a presentare Milanese al presidente del Consorzio era anche riuscito a organizzare gli incontri di Mazzacurati con Gianni Letta, allora sottosegretario a Palazzo Chigi, e soprattutto con Tremonti, prima della riunione del Cipe che poi aveva dato via libera ai finanziamenti per il Mose, in precedenza bloccati, perché destinati ad altre opere in Italia. Al Consorzio arrivarono così 420 milioni dei 1424 complessivi.

Giorgio Cecchetti

 

il giudice del riesame

«Un fiume di denaro per politici e funzionari»

La complessità del sistema ha portato il Consorzio a instaurare «rapporti particolari»

Mazzacurati telefonò a Gianni Letta per finanziare un film del figlio Carlo

VENEZIA Il giudice di Milano avrà venti giorni di tempo, in base alla legge, per rinnovare l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal collega di Venezia e che ieri ha portato in carcere per corruzione l’ex parlamentare del Pdl Marco Milanese. Ad occuparsi dell’inchiesta stralcio sul Mose proveniente dalla laguna sono i pubblici ministeri Roberto Pellicano e Luigi Orsi, in base alla decisione del procuratore Edmondo Bruti Liberati: i due pm hanno già ricevuto la scorsa settimana la prima documentazione. Ieri, intanto, il presidente del Tribunale del riesame Angelo Risi ha depositato le motivazioni a causa delle quali è stato respinto il ricorso dell’imprenditore della «Grandi Lavori Fincosit» di Roma […………………….], che è rimasto in carcere. Nel documento il magistrato riassume l’intera vicenda a partire dalla Legge speciale del 1984 e dalla Legge obiettivo del 2001. «La complessità dell’intera procedura e la continua necessità di finanziamenti da parte del potere politico e amministrativo», si legge, «hanno portato i dirigenti del Consorzio ad instaurare uno stretto legame con i pubblici ufficiali da cui dipendeva la sopravvivenza del Consorzio… Sono maturate elargizioni del denaro aventi due direzioni: da una parte in favore del potere politico, allo scopo dei evitare interruzioni nell’attività di finanziamento, dall’altro lato nei confronti dei singoli funzionari preposti al rilascio delle autorizzazioni e ai controlli, al fine di accelerare qualunque atto e comunque a non ostacolare l’attività». Per il Tribunale, grazie alle dichiarazioni di Mazzacurati, Baita, Savioli e Tomarelli, il presidente del Consorzio «convocava regolarmente i consorziati aventi perso decisionale maggiore per numero di quote, vale a dire […………], Baita e Tomarelli allo scopo di comunicare le decisioni assunte e chiedere il loro assenso, Stando ai conti del magistrati, il fondo nero costituito per pagare tangenti e contributi elettorali sarebbe stato di 15 milioni e 700 mila euro in pochi anni. Nel documento si ricostruisce con esattezza la vicenda della tangente di 500 mila euro versata il 14 giugno 2010 a Milanese, dopo che il Cipe il 13 maggio precedente aveva dato il via libera ai finanziamenti del Mose, grazie all’intervento del ministro Tremonti, di cui Milanese era uno strettissimo collaboratore. Oltre a Mazzacurati, della mazzetta per l’ex ufficiale della Guardia di finanza parlano Baita e Claudia Minutillo. E poi c’è l’incrocio dei tabulati dei cellulari di Mazzacurati, Milanese e Meneguzzo. Infine, nel documento, si fa anche riferimento a una telefonata che Giovanni Mazzacurati avrebbe fatto al sottosegretario Gianni Letta per finanziare attraverso il ministero dei Beni culturali un film del figlio Carlo. Giorgio Cecchetti

 

L’APPELLO DEI DOCENTI IUAV STEFANO BOATO E CARLO GIACOMINI

«La concessione unica al Cvn è illegittima e va revocata»

C’è una legge dello Stato, la 139, che da vent’anni ha abolito la concessione unica. Ma non è mai stata applicata. E ci sono altre due leggi – tra cui la 537 del 1995 – che non sono mai state prese in considerazione. Dunque, la concessione unica è «illegittima». Un appello al premier Renzi, annunciato in visita in laguna martedì prossimo e ai parlamentari veneziani viene da un gruppo di urbanisti veneziani. Stefano Boato e Carlo Giacomini, entrambi docenti Iuav noti per la loro decennale battaglia anti Mose, hanno messo a punto un dossier, studiando leggi e direttive comunitarie, che sarà adesso consegnato al presidente del consiglio. Chiedono di sospendere gli «atti aggiuntivi», convenzioni successive alla grande Convenzione quadro del 1991 che definiscono «artifici per aggirare la legge che abolisce la concessione unica». «Bisogna fare una pausa e sospendere l’erogazione dei fondi», dicono Boato e Giacomini, «affidare i controlli dei lavori e del progetto a un ente scientifico terzo, autorevole e indipendente, per vedere cosa si può fare». Difficile a questo punto rimuovere dai fondali i cassoni di calcestruzzo e tornare indietro. «Anche questi sono interventi contro la Legge Speciale, che parlava di gradualità, reversibilità e sperimentalità», dice Giacomini. Che propone al governo di mettere in piedi «una nuova struttura pubblica efficiente per il controllo», affidata al ministero dell’Ambiente. «Anche per toglierla dalle mani», dice, «di chi da trent’anni governa il Mose e la laguna come fosse un’infrastruttura». Sospensione dei cantieri, dunque. E una verifica su quello che si può ancora fare, a cominciare dai controlli sulle cerniere e sulle profondità dei fondali, sui rischi di rottura e la manutenzione». Togliere la concessione, dicono i due docenti. E intanto ridurre gli «oneri del concessionario» dal 12 al6 per cento. E impedire in futuro che lo stesso soggetto che progetta i lavori sia quello che li esegue. (a.v.)

 

Galan, tour de force per la Giunta della Camera

La Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera tornerà a discutere, la prossima settimana, della richiesta di arresto per Giancarlo Galan, chiamato in causa per l’inchiesta sul Mose. La Giunta è stata convocata per mercoledì 9 alle ore 13 e per giovedì 10 alle 13.15.A seguire ci sarà l’ufficio di Presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi. Secondo il calendario previsto la votazione in Giunta sulla richiesta di arresto dovrà arrivare entro l’11 luglio.

 

La resistibile ascesa dell’ombra di Tremonti

Vita e carriera politica dell’ex parlamentare del Popolo delle libertà

Nell’inchiesta le auto, i viaggi e gli orologi pagati perché vicino al ministro

VENEZIA – Per almeno dieci anni è stato l’ombra di Giulio Tremonti. Ed ora il prossimo obiettivo dell’inchiesta veneziana potrebbe essere proprio l’ex potente ministro dell’Economia dei governi Berlusconi. Ma per lui, Marco Milanese, la definizione più azzeccata è probabilmente quella dell’assicuratore Paolo Viscione che, ascoltato da un magistrato napoletano, lo definisce «uno scapocchione», un fancazzista, spinto a pedate dal padre negli ambienti che contano. Con ottimi risultati. Cinquantacinque anni, ufficiale della Guardia di Finanza (arriva al grado di generale), Milanese è lo stesso che da deputato del Pdl offre ospitalità in un appartamento di via Campo Marzio a Roma al suo ministro, facendosi pagare in nero l’affitto (Tremonti ha patteggiato per questo quattro mesi di reclusione). In un paese normale dopo tre inchieste, due richieste d’arresto e un rinvio a giudizio, sarebbe stato cacciato persino da un caffé di periferia. E invece Milanese, non più deputato, è oggi professore della Scuola superiore dell’Economia e delle Finanze – la scuola del Ministero dell’Economia, oggi guidato da Pier Carlo Padoan –: un incarico da 194 mila euro l’anno (ridotto della metà dallo scorso dicembre). Del resto, il suo curriculum parla da solo: laurea in Giurisprudenza a Salerno, laurea in Scienze della Sicurezza Economico Finanziaria a Roma Tor Vergata, master in Diritto Tributario dell’Impresa «cum laude» alla Bocconi, corso di perfezionamento alla Luiss su «elusione ed evasione fiscale internazionale ». Dal 2001 ufficiale Aiutante di campo del ministro Tremonti, poi consigliere politico e infine deputato del Pdl, a muoversi nel mondo romano deve aver imparato molto bene e molto in fretta: tranquillizzava gli imprenditori preoccupati di qualche verifica fiscale con un rassicurante «ci penso io». Amante dei viaggi all’estero, delle barche, delle belle auto e degli orologi di prestigio, i suoi accusatori hanno ammesso di avergli concesso la disponibilità di una Bentley nera, di avergli regalato una Ferrari 612 Scaglietti e di avergli pagato diversi orologi Patek Philippe. L’assicuratore napoletano che lo accusa ha riferito di avergli pagato anche il Capodanno 2010 a New York, prenotato in un’agenzia di viaggi romana il cui nome calza a pennello: «Liberi tutti, srl». A Venezia è accusato di aver intascato mezzo milione di euro da Giovanni Mazzacurati, consegnati negli uffici milanesi di Palladio finanziaria per agevolare lo sblocco dei fondi Cipe per il Mose. Dietro a quei soldi persino una storia curiosa: il contante fu recuperato con il meccanismo della «retrocessione» dal contabile del Consorzio Venezia Nuova Luciano Neri, giusto nel giorno in cui la Guardia di Finanza iniziava la verifica fiscale negli uffici del Mose. Neri, che teneva i soldi nel cassetto, li nasconde dietro l’armadio e poi torna a recuperarli la sera, a uffici chiusi. Il giorno dopo Mazzacurati li porta a Milano. E pure si vanta al telefono dell’impresa.

Daniele Ferrazza

 

Quelli rovinati dal Mose

Il diritto di critica processato nei tribunali

L’ultimo caso riguarda gli ingegneri Di Tella, Vielmo e Sebastiani che presentarono a Cacciari il progetto “Paratoie e gravità”

VENEZIA – I danneggiati del Mose. Non c’è soltanto chi ha preso soldi (tangenti, contributi, studi) dal Consorzio Venezia Nuova. Ma anche chi avendo criticato la grande opera si è ritrovato in tribunale con richieste danni. L’ultimo caso è quello di Vincenzo Di Tella, ingegnere esperto in tecnologie sottomarine. Suo, insieme agli ingegneri Paolo Vielmo e Gaetano Sebastiani, il progetto delle «Paratoie a gravità», alternativa al Mose – «meno costosa e più affidabile », garantivano gli ingegneri – presentata in Comune nel 2006 dal sindaco Massimo Cacciari. Il governo non l’aveva nemmeno considerata. E il Consorzio aveva citato in tribunale Di Tella, chiedendogli mezzo milione di euro di danni. Alla fine l’ingegnere era stato assolto. «Diritto di critica», aveva sentenziato il giudice. «Non avevo offeso nessuno», ricorda, «solo messo in dubbio il funzionamento della struttura, perché il sistema con cui avevano fatto le prove era quello dei modelli matematici, senza prove in vasca. Li ho sfidati pubblicamente, ma non hanno mai accettato il confronto. Nemmeno quando la società di ingegneria Principia aveva messo nero su bianco le «criticità » del sistema Mose e la tenuta delle paratoie in caso di mare agitato. Altra querela milionaria quella presentata nel 2005 dal Consorzio ai danni di Carlo Ripa di Meana, ex commissario europeo all’Ambiente ed ex presidente della Biennale che da candidato sindaco aveva condotto allora una campagna molto forte contro i danni ambientali della grande opera. «Mi avevano chiesto tre milioni di euro», ricorda, «poi la querela era stata ritirata davanti al Tribunale di Perugia. Adesso la storia ci dà ragione». Un plotone di avvocati di peso – a Venezia Alfredo Bianchini e Alfredo Biagini, a Milano lo studio Vanzetti. Cause e risarcimenti che in qualche caso hanno prodotto l’uscita degli interessati dalla battaglia contro il Mose. Come nel caso di Riccardo Rabagliati, ex direttore dell’Accademia di Belle Arti e presidente della sezione veneziana di Italia Nostra. Alla fine degli anni Ottanta aveva affisso in città decine di locandine del settimanale «Il Mondo» con la foto del Mose davanti a San Marco e lo slogan «Le idiozie che costano miliardi». Querela ritirata dopo molti anni. Ma Italia Nostra nel frattempo era stata «azzoppata» dalle richieste di danni. Denunce qualche anno più tardi anche per i dimostranti del Morion che avevano occupato i cantieri e la sede del Consorzio in campo Santo Stefano. Una delle cause più note era stata quella intentata ai due fratelli Spagnuolo, geometri padovani che avevano lavorato per la diga del Vajont. Per anni avevano esposto manifesti e distribuito volantini e dossier in campo San Salvador, denunciando la «pericolosità» del Mose. La vicenda penale si era conclusa per la morte di entrambi. «Non solo richieste danni, molti di noi hanno pagato per la loro opera di tecnici indipendenti», ricorda Andreina Zitelli, docente Iuav e componente della commissione Via (Valutazione di Impatto ambientale) che nel 1998 aveva bocciato il Mose. «Io, Zitelli e Vittadini fummo oggetto di una campagna denigratoria», ricorda Carlo Giacomini, anche lui docente Iuav, «solo perché avevamo fatto il nostro dovere. All’epoca c’erano i tecnici inossidabili e quelli ossidabili. Noi facevamo parte della prima categoria». Difficoltà al Cnr anche per Georg Umgiesser, che aveva dimostrato l’efficacia delle opere alternative al Mose per ridurre le acque alte, per l’ingegnere idraulico Luigi D’Alpaos («Il Mose aggrava lo squilibrio della laguna») e per Paolo Pirazzoli, del Cnr francese. Polemiche e vicende che dopo l’inchiesta vanno rilette sotto un’altra luce.

Alberto Vitucci

 

‘‘LAVORI TERZA CORSIA A4

La prefettura di Udine emette una interdittiva antimafia

UDINE – La Prefettura di Udine ha emesso un’interdittiva antimafia nei confronti dell’impresa di costruzione Rizzani De Eccher, su segnalazione della Direzione investigativa antimafia. L’impresa sta realizzando, insieme ad altre, i lavori per la terzia corsia dell’A4 Mestre-Trieste. In una nota diffusa, l’azienda friulana esprime «stupore e sconcerto» assicurando la massima collaborazione e minacciando azioni legali a tutela della propria immagine. «Il Presidente del Consiglio di Amministrazione Marco de Eccher – recita la nota dell’impresa – manifesta il proprio stupore e personale sconcerto per un provvedimento che, ove effettivamente adottato, sarebbe senza alcun dubbio privo di qualsivoglia fondamento, del tutto ingiustificato e gravemente lesivo dell’immagine del Gruppo». Il provvedimento di interdittiva riguarda la società Tilliaventun – società di progetto costituita al 50% da Rizzani DeEccher spa e Pizzarotti&C. Il commissario della terza corsia conferma di aver ricevuto l’interdittiva e di aver interpellato l’Avvocatura generale dello Stato per conoscere le procedure del caso. La Tilliaventum risulta aggiudicataria, in via provvisoria con la formula del general contractor (che comprende la progettazione definitiva e la realizzazione di un’opera) del terzo lotto della terza corsia della A4 da Ponte Tagliamento a Gonars. La comunicazione di interdittiva serve per scongiurare il pericolo che nei lavori gestiti dall’impresa vi possano essere delle infiltrazioni della criminalità organizzata. De Eccher si è aggiudicata i lavori insieme a Pizzarotti (con un ribasso del 46%) ma i lavori non sono ancora cominciati perché è in fase di completamento la progettazione esecutiva. L’importo del cantiere è di 299,7 milioni di euro. Quanto ai lavori tra Quarto d’Altino e San Donà, in corso di ultimazione, le imprese che si sono aggiudicate (ribasso del 28%) il lavoro sono Impregilo, Mantovani, Consorzio veneto cooperativo, Cosostramo e Carro, per un valore di 224,6 milioni di euro. La società di costruzioni, pur non potendo allo stato «esprimere alcuna considerazione sul contenuto del citato provvedimento che non è stato in alcun modo e forma comunicato alla Società, si dichiara certa che lo stesso sia frutto di scarsa conoscenza dell’operatività del Gruppo e sia stato adottato su presupposti del tutto errati e fuorvianti. A tal proposito ricorda che il Gruppo ha sempre operato nel pieno rispetto di tutte le disposizioni di legge e misure atte a prevenire qualsiasi rischio di illegalità nei propri cantieri ed in particolare, nel caso della Terza Corsia della A4, ha sottoscritto con la Committente e la Prefettura competente uno specifico Protocollo di Legalità ». Rizzani De Eccher è attiva nel settore infrastrutture e grandi lavori in oltre 20 paesi del mondo con 2.800 dipendenti.

Daniele Ferrazza

 

L’AZIENDA: «STUPORE E SCONCERTO»

La De Eccher nel mirino Dia

Scandalo soprattutto veneto e romano

Un mese fa, grazie alla formidabile indagine della magistratura veneziana, scoppiava lo “scandalo Mose”che in realtà è lo “scandalo Consorzio Venezia Nuova”. Sene parla come di una vicenda “veneziana” ma Venezia, in questa pessima storia, è solo la scena del crimine. I veri luoghi in cui siè ordito e perpetrato il malaffare sono gli uffici di comando del Consorzio Venezia Nuova e, istituzionalmente, sono soprattutto la Regione Veneto e i ministeri romani, con le loro propaggini locali,come il Magistrato alle Acque, e i servitori dello Stato infedeli presenti nelle Finanza e nella Corte dei Conti e altrove, insieme ai loro complici, a volte sedotti a volte corrotti. Lo scandalo, quindi, è anche veneziano ma soprattutto veneto e romano. A Ca’ Farsetti, sede del Comune, la corruzione legata al Consorzio non è mai entrata,anche se le accuse a Orsoni, da candidato sindaco, ne hanno causato lo scioglimento (di cui rischiano di giovarsi soprattutto i poteri locali e romani alleati da sempre proprio al Consorzio).È importante ribadirlo, per non offrire alibi e nascondigli ai veri responsabili e ai veri covi del malaffare. Un mese dopo, i materiali della cruciale indagine della Procura veneziana lo confermano: occorre tagliare non solo la testa ma rimuovere tutte le membra del sistema corruttivo che hainquinato e distorto la democrazia e l’economia e pesantemente condizionato la stessa opinione pubblica.

Gianfranco Bettin – Associazione “In Comune”, Venezia

 

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