Nuova Venezia – Baita va all’attacco “Collaudi del Mose conto da 26 milioni”
Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments
13
giu
2014
L’ex presidente della Mantovani a «l’Espresso» ricostruisce la lista dei big che hanno incassato le maxiparcelle
Si va dai vertici dell’Anas a Vincenzo Fortunato per finire con Roberto Daniele
VENEZIA «La Mantovani aveva un terzo del Consorzio Venezia Nuova che ha costruito il Mose, perché si parla solo della Mantovani come corruttrice?». In una intervista a “l’Espresso” in edicola oggi, l’ex presidente della Mantovani Piergiorgio Baita allarga lo scenario dell’inchiesta sulle tangenti veneziane e ribadisce quanto dichiarato ad Alberto Vitucci, del nostro giornale, una settimana fa. Il settimanale nel dossier dedicato al Veneto, si occupa anche delle aziende dell’ex ministro Galan, dei suoi legami con Veneto Banca e poi della Lega, con la clamorosa inchiesta sui rapporti con la Siram, con l’ex cassiere Belsito e il suo consulente Bonet che accusano Tosi e Gobbo di aver avallato un sistema di finanziamento parallelo. Ma torniamo al Mose, con le dichiarazione di Baita che hanno trovato conferma dagli interrogatori di Giovani Mazzacurati, il deus ex machina del Consorzio Venezia Nuova e padre del Mose. Baita dichiara a Gianfrancesco Turano de «l’Espresso»: «Io avevo la sponda a San Marino. E gli altri? Per esempio la Technital del gruppo Mazzi, che ha preso anche la progettazione della Pedemontana lombarda, ha incassato dal Consorzio tra 150 e 200 milioni di euro solo per le opere alle bocche di porto.[……] era il tramite fra Mazzacurati e Gianni Letta, era quello che li faceva incontrare a cena a Roma, nella casa dove hanno trovato tre quadri del Canaletto e uno del Tintoretto. E non solo le parcelle Technital non si sono mai potute discutere ma nel 2004, quando siamo entrati nel Cvn comprando dall’Impregilo dei Romiti, Mazzacurati ci ha ordinato di girare una parte delle azioni a [……], in modo da essere su un piano di parità. Se no, non ci faceva entrare». Baita conosce la leggenda nera riguardante Italholding, la capogruppo dei […..] intestata a due fiduciarie (Spafid e Prudentia): la quota di minoranza sarebbe stata girata di volta in volta al politico di riferimento dell’opera. «Di sicuro a ogni spreco», dice a “l’Espresso”, «corrispondeva una fetta di consenso in un settore: politici, amministratori, quei tecnici che ti compri con quattro promesse di carriera. La settimana scorsa hanno messo agli arresti un ingegnere, Luigi Fasiol, per un incarico di collaudo su mia segnalazione. Con questo metro dovrebbero arrestare parecchi alti dirigenti ministeriali, manager pubblici e giudici contabili. Invece non ho visto nulla sui 26 milioni di euro in collaudi dati ai vertici dell’Anas, a Pietro Ciucci, a Vincenzo Pozzi, a Pietro Buoncristiano o a ex magistrati come Vincenzo Fortunato. Tutti chiedevano l’incarico al Cvn». Il totale dei collaudi delle opere Mose è di 26 milioni di euro distribuiti a 272 soggetti. Il record con 1,2 milioni di euro è dell’ex presidente Anas Vincenzo Pozzi, oggi alla presidenza della Cal (Concessionarie Autostradali Lombarde) con l’ex ad Antonio Rognoni, arrestato per truffa alla Regione Lombardia. Numero due per importo presunto è il successore di Pozzi, Pietro Ciucci: 747 mila euro di compenso di cui 480 mila fatturati. Piero Buoncristiano, direttore del personale Anas in pensione, ha parcelle per più di mezzo milione, oltre a un posto di amministratore delegato del Cav, la società mista per gestire le strade fra Anas e Veneto. Presenti anche l’ex direttore generale Francesco Sabato, Alfredo Bajo, braccio destro di Ciucci, Mauro Coletta e Massimo Averardi con somme dai 240 mila ai 400 mila euro. In zona infrastrutture e trasporti si trovano l’ex magistrato ordinario e del Tar Vincenzo Fortunato (535 mila euro), capo di gabinetto di ministeri prima di essere nominato liquidatore della Stretto di Messina. Anche Roberto Daniele ha partecipato ai collaudi del Mose con 400 mila euro fatturati. Daniele ha ricevuto tutto il compenso presunto (414 mila euro) e da un anno, su nomina del ministro Maurizio Lupi, presiede il Magistrato alle acque di Venezia. Ma quello che è accaduto a Venezia è un modello che si ripete in altre opere. Spiega Baita a “l’Espresso”: «Dopo Tangentopoli, il Consorzio ha avuto il merito di sollevare i politici dal rapporto diretto con gli imprenditori. Questo sistema ha fatto scuola con la nascita di varie società di scopo (Ispa, le società regioni- Anas, la stessa Sogin). E arriva fino all’Expo di Milano».
Galan: dai traffici di gas con l’Indonesia all’energia
Ve la ricordate la sceneggiata di Berlusconi alla ________: «Ma lei quante volte viene» rivolta ad Angela Bruno, la dipendente mandata sul palco come speaker dell’evento elettorale? Quell’azienda ha forti legami con Giancarlo Galan, l’ex ministro della Cultura sulla cui testa pende la richiesta dia resto formulata dalla procura di Venezia e depositata alla camera dei deputati per la necessaria autorizzazione. A quanto scrive l’Espresso nel numero in edicola oggi, Galan assieme alla moglie Sandra Persegato possiede una quota del 10 per cento della società costituita appena 15 mesi fa. Gli investigatori hanno intercettato alcune telefonate in cui la moglie di Paolo Venuti, commercialista, parlava di traffici di gas con l’Indonesia. Il professionista è stato arrestato. Torniamo a ________: Galan e la moglie hanno versato 10 mila euro a __________ e Luca Ramor, due manager rampanti che hanno bruciato le tappe della carriera con una società che si occupa di energia pulita, quotata a Piazza Affari. Nel suo articolo, Vittorio Malagutti ricostruisce i bilanci dell’azienda, che in portafoglio ha 2 mila clienti. Quanto vale l’azienda? «Un milione di euro» scrive Andrea Barbera, il commercialista che nell’ottobre 2012 ha firmato un’apposita perizia giurata, che ha fatto anche parte del collegio sindacale.Come risulta dai bilanci i ricavi sono saliti a 52 milioni nel 2013, quasi il doppio rispetto al 2012. E i profitti sono balzati a 700 mila euro a quasi due milioni. Una marcia trionfale, che rischia di fermarsi con l’inchiesta del Mose, visto che Galan, amico e socio, ora rischia il carcere. Ameno che alla Camera non scatti un meccanismo di solidarietà trasversale,mail Pd ha già detto che il sì all’arresto sarà unanime.
Fondi della Siram
Belsito e Bonet accusano la Lega
Clamorose novità nell’inchiesta che la procura di Milano ha avviato dopo l’arresto di Belsito: l’ex tesoriere della Lega Nord e il suo consulente Bonet hanno lanciato accuse su Flavio Tosi e Giancarlo Gobbo, entrambi segretari veneti del Carroccio, per aver avallato un sistema di finanziamento parallelo ed esclusivo. Tutto questo è raccontato nel numero de l’Espresso in edicola oggi. I soldi sospetti arriverebbero dalla Siram, un colosso francese degli appalti di energia, e anche da grandi aziende italiane come la Fincantieri. Versamenti per almeno 10 milioni di euro. Appena lette le anticipazioni di stampa, Flavio Tosi e Luca Zaia hanno annunciato querele.
I protagonisti Sutto, l’uomo di fiducia che gestiva il denaro
Quello di Scaramuzza è invece il ruolo di collegamento tra Baita e Brentan
VENEZIA Ci sono figure che ai più dicono poco, nella vicenda delle tangenti del sistema Mose, ma sono fondamentali per far funzionare il meccanismo della corruzione e della mazzetta distribuita a destra e a sinistra. Sono funzionari del Consorzio Venezia Nuova e imprenditori costretti a fare i collettori di denaro e a pagare, se vogliono continuare a lavorare. Federico Sutto è una figura fondamentale nella vicenda. «È il consigliere politico di Mazzacurati» dice in un interrogatorio Piergiorgio Baita. Figura importante per capire la tangentopoli, tanto che la Guardia di Finanza, su richiesta della pm Paola Tonini, dedica ben quattro file, ricchi di dati, al personaggio. Scrivono gli investigatori del manager con un passato di socialista: «Già capo della segreteria dell’allora ministro Gianni De Michelis, da qui si spiegano gli ottimi rapporti con l’assessore Renato Chisso, dal 1996 è dipendente del Consorzio, con compiti di assistenza a tutte le attività della segreteria del suo presidente Mazzacurati». Con Renato Chisso, Sutto va anche in ferie, in Turchia. Mai dimenticare che Mazzacurati sostiene di aver iniziato a pagare Chisso già dai primi anni Novanta. Ed è Chisso che fa assumere Sutto al Consorzio. Nel corso degli anni Sutto diventa l’uomo di fiducia di Mazzacurati, tanto che a lui l’ingegnere «affiderà in via esclusiva il compito della raccolta e della custodia delle somme di denaro contante retrocesso dalle imprese all’ingegnere Mazzacurati », sottolinea in un’informativa la Guardia di Finanza. In sostanza è il “ragioniere delle mazzette”, incarico che prima condivideva con l’ingegnere Alberto Neri, vice direttore del Consorzio. Neri va in pensione quando, nel 2010, arriva la Guardia di Finanza, per un accesso ispettivo (in realtà è il sistema per iniziare l’indagine), ed emerge che i conti non tornano, si trova traccia di mezzo milione di euro non dichiarati. Insomma si tratta di “fondi neri” che però la Guardia di Finanza non riesce a sequestrare. Forse chi compie la verifica viene tradito da qualche talpa infiltrata dalla “cupola delle mazzette”. Neri prende paura e va in pensione. Sutto, allora, sale in cattedra. In un verbale Giovanni Mazzacurati dichiara: «(…) i soldi generalmente me li facevo portare, quasi mai li ho portati io. Erano soldi che servivano a me(…) Insomma soldi che dovevo dare a qualcuno». E alla domanda del pm Tonini su chi li portava, Mazzacurati risponde: «(….)meli portava Sutto». Altro passaggio importante della tangentopoli è la corruzione che riguarda il Magistrato alle Acque. Il pm chiede all’ingegnere chi sapeva della corruzione e lui risponde: «Sutto sapeva e pure Neri sapeva. Io usavo Neri fino ad una certa epoca, praticamente usavo Sutto e basta». E in quel periodo le consegne sono state tra le 20 e le 22. Poi Sutto per queste cose è perfetto. Spiega ancora l’ex presidente del Consorzio: «(…) lui, Sutto non chiedeva mai nulla, prendeva la busta (..) .e non chiedeva (…) andava a consegnare». Piergiorgio Baita, in un altro verbale, inoltre spiega che «(…) Sutto diventa con il tempo, il consigliere politico di Mazzacurati». L’uomo che spiega come mantenere gli equilibri con tutti i partiti. Sempre in questa tangentopoli compare il nome di Mauro Scaramuzza, titolare della Fip, impresa della galassia Mantovani con la quale spesso fa Consorzi d’impresa temporanei. È l’uomo di collegamento tra il sistema Baita e quanto ha creato Lino Brentan con i lavori legati all’autostrada Padova Venezia. Lui, imprenditore, è costretto a chiedere la “partecipazione” economica al sistema, alle altre imprese a cui subappalta i lavori che si aggiudica. Vince e cede appalti e poi passa a raccogliere il denaro contante, che poi, attraverso Lino Brentan e Giampiero Marchese, arriva al Pd. Scaramuzza sarà figura di spicco nel prossimo filone d’inchiesta: opere stradali.
Carlo Mion
Gdf, esisteva un «sistema» di false verifiche
La procura di Napoli ipotizza un vasto meccanismo di corruzione per pilotare i controlli fiscali
NAPOLI La vicenda delle mazzette versate per ammorbidire le verifiche fiscali, che ha portato martedì all’arresto del comandante provinciale di Livorno della Guardia di Finanza, Fabio Massimo Mendella, rappresenta un caso isolato o fa parte di un sistema collaudato e assai più ampio in cui sono coinvolti sia ufficiali, sia gradi più bassi delle Fiamme Gialle? È questo che intendono accertare ipm della Procura di Napoli che conducono l’inchiesta e che, stando a quanto finora emerso, ritengono più che fondata l’ipotesi dell’esistenza di un livello molto più grave di corruzione. Una circostanza che trapela dalle indiscrezioni raccolte e che si evince anche della lettura del decreto con il quale i pm della Procura di Napoli Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock hanno ordinato la perquisizione degli uffici del vicecomandante generale della Gdf Vito Bardi. Nel provvedimento di poche righe non vi sono riferimenti a episodi concreti nè a fonti di prova, ma solo il reato ipotizzato, che è quello di corruzione. Hanno deciso di non scoprire ancora le carte gli inquirenti che stanno lavorando soprattutto sugli stretti legami tra Bardi e Mendella, entrambi componenti del Cocer della Gdf e legati da rapporti di frequentazione. Né sono noti, al momento, i motivi che hanno indotto a iscrivere nel registro degli indagati il generale in pensione della Gdf Emilio Spaziante, arrestato la settimana scorsa per la vicenda Mose. Segno comunque che si indaga su più fronti. Ma ora l’attenzione è concentrata sulla figura dell’imprenditore napoletano Achille D’Avanzo, titolare della società Solido Property, proprietaria di numerosi immobili affittati alla Guardia di Finanza. Le verifiche della Digos di Napoli riguardano presunti fatti corruttivi simili a quelli venuti alla luce nella vicenda rivelata dai Pizzicato. Il nome dell’immobiliarista napoletano spuntò in un’ inchiesta svolta nel 2012 dal pm Woodcock nell’ambito della più vasta indagine sulla P4. Nel novembre di quell’anno furono disposte varie perquisizioni tra cui anche quelle a carico di D’Avanzo. Oggetto: presunte irregolarità nell’affitto a Napoli di immobili destinati alla Guardia di Finanza per importi ritenuti esorbitanti nonché l’acquisto di immobili a Roma. Una vicenda poi archiviata dal gip del Tribunale di Roma come ricordano in una nota i legali di D’Avanzo. Gli scenari che configurano gli inquirenti sono dunque quelli di un sistema assai più ramificato, che chiamerebbe in causa ufficiali e sottufficiali, e non solo attraverso accertamenti fiscali compiacenti in cambio di tangenti.
Padova, il grande affare del nuovo ospedale
Nel «piano segreto» Ruscitti avrebbe dovuto diventare dg dell’Azienda sanitaria
L’irritazione di Mazzacurati per il ruolo «pigliatutto» di Piergiorgio Baita
Sette anni di progetti destinati a morire dopo la grande retata e l’arrivo di Bitonci
Doveva costare 1,7 miliardi di euro e ospitare 2400 posti letto sanitari
PADOVA – Questa è la storia (e i retroscena) del più grande appalto sanitario del Veneto in campo sanitario: il nuovo ospedale di Padova ovest. Voluto da Giancarlo Galan, figlio di un primario, abbracciato dalla sinistra, sventolato dall’Università. Varato nel 2007 dalla Regione, attirò subito uno dei grandi gruppi mondiali della sanità: gli australiani della Bovis, che presentarono un mega progetto da 2400 posti letto e 1,7 miliardi di euro di spesa. Dopo sette anni di progetti, polemiche e serate conviviali sono bastati sette giorni di questo giugno per riporlo definitivamente nel cassetto: prima la Grande Retata veneziana, poi la vittoria di Massimo Bitonci a Padova. Addio al nuovo ospedale, che nel corso degli anni era stato «ridimensionato» a mille posti letto e 600 milioni di spesa. Le indagini dei magistrati svelano gli altarini, intuibili ai più navigati conoscitori del mondo ma sconosciuti dal grande pubblico. Il 1 marzo 2011, ad esempio, l’ex segretario regionale alla Sanità Giancarlo Ruscitti – uomo legato all’Opus Dei – parla al telefono con il cassiere delle cooperative rosse, il trevigiano Pio Savioli. Il quale riferisce che l’Ingegnere (Mazzacurati) avrebbe parlato con l’allora sindaco Zanonato del nuovo ospedale. L’ipotesi che avrebbe potuto far decollare il nuovo polo sarebbe stata la nomina a direttore generale dell’Azienda ospedaliera proprio di Ruscitti, che nel frattempo aveva lasciato la carica in Regione: «Sul direttore generale – spiega Ruscitti al suo interlocutore – prevalgono tre voci: una è il presidente della Regione, l’altro è il rettore dell’università, che però è amico di Zanonato e il terzo è Zanonato stesso. Allora se i due, Zanonato e il Rettore, si mettessero d’accordo è dura che il presidente della Regione non gli mandi…» Ruscitti rivela al cassiere delle cooperative anche il retroscena che un paio d’anni prima il rettore Milanesi avrebbe voluto suggerire il suo nome al posto di Adriano Cestrone, all’epoca direttore dell’Azienda ospedale di Padova: ma poi non se ne face niente perché Galan si oppose: «Io voglio fare il quarto mandato – disse l’ex governatore a Ruscitti – se tu mi lasci dopo due anni devo prendermi un nuovo segretario con tutti i problemi che ci sono ». Savioli e Ruscitti parlarono anche dell’ubicazione del nuovo polo sanitario a Padova Ovest: «Se lo facciamo dentro andiamo incontro a un gruppo anti Zanonato, che contesta da sempre la scelta di Padova Ovest e così via, ma se siamo noi a far dipanare i problemi e i vantaggi dell’una e dell’altra scelta dovremmo averne ragione. Ma lui (l’Ingegnere) torna sempre lì, su Piergiorgio». Dalla conversazione si evince chiaramente (e siamo nel 2010) che Mazzacurati non vuole Baita tra i piedi nel project del nuovo ospedale di Padova. Savioli parla di come «risolvere » il problema Baita e racconta a Ruscitti un episodio di molti anni prima: quando a un appuntamento con Lia Sartori la parlamentare vicentina disse espressamente ai suoi interlocutori: «Venite ma non portatemi Piergiorgio». Insomma, l’ex presidente di Mantovani era percepito nell’ambiente come un «pigliatutto» che dava fastidio a tutti: Savioli parla della cordata antagonista per il restauro della Fenice ed anche di un’offerta ostile per il nuovo ospedale di Treviso. «Cioè Piergiorgio se non c’è lui….va fuori di matto» sibila Savioli al telefono. Due mesi più tardi, il 7 giugno 2011, Mazzacurati e Savioli, consigliere del Consorzio Venezia Nuova, invitano a cena Zanonato e il rettore Milanesi. C’è anche Ruscitti e l’argomento è, appunto, l’ospedale di Padova. «Il capo supremo mio (Mazzacurati) era un po’ come si suol dire scoglionato e invece è ritornato arzillo» riferisce Pio Savioli il giorno dopo a Franco Morbiolo, il capo del Coveco, consorzio di cooperative. Lo scoglio per il nuovo ospedale è sempre stato, in Regione, Luca Zaia, mai particolarmente entusiasta. Più interessato al project della «sua» Treviso: «Chi vuole metter lemani là dentro, lo uccido» riferisce Savioli attribuendo questa frase proprio al governatore. Alla fine, anche quello di Treviso rischia di incagliarsi nelle inchieste: due dei tre promotori (Meneguzzo e Maltauro) sono in carcere.
Daniele Ferrazza
Caso Bolzan, quattro milioni alla Lega
I veleni di Savioli sul caso di Treviso
«Vox populi di Treviso, messa in giro da Forza Italia, è che gli altri soldi son andati alla Lega. Cioè quei quattro milioni che mancano… insomma, gli altri quattro sono andati alla Lega». Parola di Pio Savioli, bolognese trapiantato a Treviso, consigliere del Consorzio Venezia Nuova e riferimento delle cooperative rosse nei lavori del Mose. Lo riferisce, a proposito dell’impiegata infedele condannata per aver sottratto alle casse dell’Usl di Treviso più di 4 milioni di euro, in una conversazione telefonica con Giancarlo Ruscitti, ex segretario regionale alla Sanità, intercettata dai magistrati della Procura di Venezia. Ruscitti conosce bene la vicenda e aggiunge dettagli e particolari, come l’amicizia tra Cestrone e l’impiegata e il ruolo del dirigente Mario Po.
Dal 2007 sul piatto la proposta della Bovis Lend
Padova Ovest, nei pressi dello stadio Euganeo. É il luogo dove avrebbe dovuto sorgere il nuovo ospedale di Padova. La superficie di 546.743 metri quadri suddivisa in 37 proprietà diverse. Una delle proprietà più estese appartiene al gruppo Unicomm dei Cestaro (Famila). La prima proposta progettuale è stata presentata nel 2007 dal gruppo internazionale Bovis Lend Lease (e da Palladio finanziaria) e recepito dalla Regione. Nel marzo 2010, nell’ultima seduta di giunta Galan, la Regione approva il documento di indirizzo sottoscritto da Comune, Provincia, Azienda ospedaliera, Iov e Università. Con l’arrivo di Zaia il progetto viene ridimensionato a mille posti letto. Nel luglio scorso la Regione ha incaricato l’Azienda ospedaliera di fare la stazione appaltante.
Corruzione: indagato l’ex questore Damiano
Il presidente di Mantovani accusato di aver ricevuto regali dalla Compiano (North East Service)
Piena fiducia nel lavoro della magistratura, sicuro che accerterà la mia assoluta estraneità
TREVISO L’ex questore Carmine Damiano è indagato dalla Procura di Treviso, insieme a Luigi Compiano, con l’ipotesi reato di corruzione in relazione al periodo in cui, dopo aver lasciato la questura, aveva svolto una collaborazione per la Compiano. Il nuovo filone d’indagine, nato dal clamoroso buco nel caveau della Nes, è ancora riservato. Ma da quanto filtra da ambienti investigativi sembra che Damiano, ora presidente della Mantovani, avesse firmato il contratto di collaborazione quando ancora ricopriva l’incarico di questore a Treviso e che quindi, qualsiasi cosa avvenuta successivamente, ha assunto un valore retroattivo. Damiano ha dichiarato di avere fiducia nella magistratura e di essere in grado di dimostrare la sua estraneità rispetto ai fatti che gli vengono contestati. Questo nuovo filone d’indagine ha preso il via dagli sviluppi della maxi inchiesta sul buco della Nes, quando si scoprì che dall’interno del caveau di Silea erano sparite decine di milioni che lì dovevano essere custodite. Dall’analisi della documentazione sequestrata successivamente sono spuntati il contratto di collaborazione e i pagamenti da parte di Compiano all’ex questore nel frattempo andato in pensione nel gennaio dell’anno scorso. Sarebbero poi emersi altri benefit, come un’Audi e un appartamento messo a disposizione dalla Compiano nei pressi di piazza del Grano. In tutto vengono contestati a Damiano e Compiano versamenti per diverse decine di miglia di euro. «Ho combattuto in prima linea la criminalità comune e organizzata per oltre 38 anni giorno e notte senza risparmiare energie», ha spiegato ieri l’ex questore di Treviso, «e chi mi conosce sa perfettamente che ho sempre fatto della legalità il mio stile di vita e la mia missione. Trovo molto strano che si parli oggi a distanza di oltre un anno di un rapporto di breve consulenza con la Nes, nato alla luce del sole e interrotto oltre un anno fa anche per miei ulteriori impegni», con chiaro riferimento alla chiamata da parte di Romeo Chiarotto a presiedere la Mantovani dopo l’arresto di Piergiorgio Baita. «Conosco bene i magistrati, il dottor De Bortoli e gli inquirenti nei cui confronti nutro la massima fiducia», ha aggiunto Damiano, «auspico scoprano velocemente, al termine di tutte le verifiche necessarie la mia estraneità ai fatti». Una posizione chiara in vista dei prossimi sviluppi delle indagini.
Giorgio Barbieri
MOZIONE DEL GRUPPO
Il Pd al governatore: subito una revisione dei project financing
VENEZIA Il gruppo consiliare del Pd veneto chiede al governatore Zaia un elenco degli investimento realizzati in ambito sanitario e infrastrutturale dal 2000 ad oggi con l’indicazione delle ditte che li hanno realizzati. I democratici, inoltre, chiedono di procedere «con la massima urgenza» alla revisione degli accordi contenuti nei project financing sottoscritti dalla Regione, lamentando che le imprese interessate siano state esentate da qualsiasi intervento di spending review.
LE MAZZETTE A CHI CACCIA I CORROTTI
FERDINANDO CAMON
La gravità della corruzione aumenta con l’eccellenza dei corrotti: adesso salta fuori il sospetto che perfino i vertici più alti della Finanza siano corrotti. Il numero 2, e il precedentenumero2. Generali con tre stelle, che nell’esercito comanderebbero Corpi d’Armata. E un colonnello. Adesso ragionerò, con voi, su quanto sia grave questa complicità, se verrà confermata, ma intanto affrontiamo subito il grande dramma: siamo spacciati, se perfino i comandi supremi della Finanza si fan corrompere? Non c’è niente da fare? No. Non è così. Perché anche questa corruzione, dei capi dei capi della Finanza, se verrà confermata, è stata smascherata, e questo vuol dire che la Finanza è in grado di controllare se stessa, la base scopre il marcio anche nei propri vertici. Certo, è grave che i vertici siano corrotti. Ma sarebbe più grave senon fossero scoperti, non avessimo su di loro intercettazioni, denunce, inchieste. Invece le abbiamo. Nello sconforto del male dilagante, c’è questo conforto di un Corpo dello Stato che vigila su di noi e su se stesso. L’attuale numero 2 della Finanza, e il suo predecessore, e un colonnello, sono indagati per aver aiutato alcuni imprenditori a nascondere la contabilità in nero, in cambio di sontuosi compensi. La parte che avrebbero ricevuto non è dell’ordine delle centinaia di migliaia di euro, ma del milione. Èquella la cifra magica, che col suo bagliore accieca gli occhi e la coscienza dei grandi servitori dello Stato, spostandoli dall’altra parte, tra i nemici dello Stato. Le notizie danno corpo al sospetto che questi altissimi ufficiali non cedessero a qualche singola avance, ma fossero stabilmente iscritti nel libro-paga delle imprese che volevano evitare i controlli. Le mazzette milionarie sono alte, ma sono proporzionali all’entità delle somme nascoste. E così si assiste a un crescendo nelle somme versate a questi ufficiali infedeli: all’inizio eran singole somme da 10mila euro, 15mila, poi son diventate 30mila, e ripetendosi han creato il monte milionario. All’inizio i corrotti si fan tentare da una piccola corruzione, timida, un assaggio, poi se quella va bene proseguono con somme più sostanziose: anche con l’Expo funzionava così, e anche col Mose. Il grosso della corruzione sta nel denaro, il resto, soggiorni qua e là, in resort di lusso, cene collettive in ristoranti chic, doni di vario genere al signore e alla signora, sono un puro contorno. Il vero problema son le valigie di euro. Noi siamo in un momento difficile della nostra storia, soffriamo le pene dell’inferno per uscire dalla crisi, siamo pagati meno, alcuni non son pagati per niente, riduciamo le vacanze, le pizze, il cinema, i vestiti, perfino gli alimentari, noi tutti, compresi i lavoratori della Guardia di Finanza: che ne è di loro, col loro piccolo stipendio di piccoli statali, ora che vedono le centinaia di migliaia e i milioni di euro sparire nelle capaci tasche dei capi dei loro capi? Lo sconforto che nasce dalla scoperta della corruzione tra i cacciatori di corruzione, crea danno in due parti della società: i contribuenti tartassati, che vedono i comandanti tartassatori intascare e nascondere, e la manovalanza dei finanzieri, quelli al cui umile, nascosto, prezioso lavoro si deve gran parte della scoperta dell’evasione. Quello del finanziere è un lavoro etico, consiste nel far sì che tutti ricevano il giusto, e che chi si accaparra l’ingiusto sia scoperto e punito. Questo esercito di lavoratori, ingiustamente non amati, ma altamente meritevoli, va in crisi se scopre che a tradire l’etica del giusto rapporto tra lavoro e compenso è chi li comanda. Vedo che da qualche parte si affaccia l’idea che qualcuno che sta in alto parli ai finanzieri, ai contribuenti, ai cittadini. E spieghi. Non solo questo scandalo, se tale resta, ma anche gli altri scandali connessi, Expo, Mose, Mps, banche varie, ammanchi, fallimenti. Come mai una banca fallisce, i suoi risparmiatori perdono tutto, poi la banca rinasce con più soldi di prima? Se è questione di uomini e non di regole, come qualcuno dice, allora come mai questi generali son diventati generali, mentre sotto di loro stanno tanti onesti, che però sono ufficiali subalterni? Lo Stato continua, anche qui, a promuovere per anzianità e non per merito? Lo Stato ci vedeo è cieco?
FerdinandoCamon
GIUSTIZIA ED ERRORI DEI GIUDICI
MASSIMO DE LUCA
La norma approvata mercoledì alla Camera, che introduce la responsabilità civile diretta dei magistrati, riproduce l’emendamento del leghista Pini già approvato nella scorsa legislatura e poi arenatosi al Senato. Il copione è lo stesso. I fautori della responsabilità diretta dei magistrati sostengono di adempiere alla procedura di infrazione 2230/2009, che però riguarda la responsabilità dello Stato per violazione manifesta del diritto dell’Unione Europea da parte degli organi giurisdizionali. Questione che non c’entra nulla con la responsabilità civile diretta dei magistrati. Le sentenze della Corte di giustizia europea ci chiedono di introdurre il principio di responsabilità anche nel caso di violazione, in un processo, delle norme comunitarie, ma sempre in capo allo Stato, mai al singolo giudice. Chi sostiene il contrario non le ha lette o è in malafede. Non è nemmeno vero che approvando il principio della responsabilità civile diretta dei magistrati ci adegueremmo alla legislazione dei paesi più avanzati. Nei paesi di common lawil giudice gode di una totale immunità per i propri atti giudiziari, bilanciata dalla responsabilità politica del Congresso negli Stati Uniti e del Lord Cancelliere in Gran Bretagna. Nei principali paesi dell’Europa continentale, dalla Germania alla Francia, è prevista come da noi la possibilità di esperire un’azione risarcitoria contro lo Stato, che potrà poi rivalersi contro il singolo magistrato. È lo stesso principio della “legge Vassalli” che disciplina in Italia questa delicata materia. Chi vuole la responsabilità diretta dei giudici afferma che la “legge Vassalli” ha tradito il referendum del 1987, che sull’onda della vicenda Tortora portò all’abrogazione della legislazione precedente. Ma anche questa è una mistificazione. Con il referendum si abrogò la norma che prevedeva che il giudice rispondesse dei suoi atti solo in caso di dolo. Punto. Spettava poi al Parlamento stabilire una nuova disciplina ed è ridicolo accusare l’allora Guardasigilli Vassalli, eminente giurista, grande avvocato di estrazione socialista e sicuramente garantista, di aver voluto una legge conforme ai desiderata dei magistrati. Vassalli e con lui i parlamentari dell’epoca, piuttosto, sapevano bene che l’attività dei giudici è un unicum, non paragonabile all’attività di qualsiasi altra professione, e per questo vollero una legge che escludesse la responsabilità civile diretta dei magistrati. È solo un’eventualità che un medico possa danneggiare un paziente, dato che il medico di regola opera per guarire il malato e così l’avvocato che si spende per far vincere il cliente. Con le loro decisioni i giudici “danneggiano” sempre una delle parti in causa, dato che nel processo c’è sempre un soccombente. Consentire alla parte che si ritiene ingiustamente condannata o che ha perso la causa di agire direttamente contro il magistrato, metterebbe la giustizia ancor più in crisi. In tutti i paesi di grande tradizione giuridica le leggi che limitano la responsabilità civile dei magistrati non sono un privilegio di casta, ma servono a tutelare la libertà di giudizio del giudice e quindi l’affidamento del cittadino di avere di fronte un giudice che non sia condizionabile. Il giudice è allora completamente irresponsabile degli atti che compie? Certo che no. C’è sempre la responsabilità disciplinare e quanto alla responsabilità civile si potrebbe semplificare e rendere più incisivo il meccanismo di rivalsa dello Stato nei confronti del giudice che ha sbagliato. Il magistrato che abusa dei suoi poteri o commette evidenti errori deve risponderne, ma va tenuto fermo il principio che il cittadino che si ritiene danneggiato possa citare direttamente solo lo Stato. Altro punto da ribadire è che non possono essere sanzionati i giudici solo per questioni interpretative, a meno che non si tratti di interpretazione abnorme. Le differenze di valutazione appartengono alla fisiologia del sistema. Se l’interpretazione delle norme e dei fatti fosse sempre univoca perché dovremmo avere più gradi di giudizio? Capisco la delusione e la rabbia di una vittima di un errore giudiziario o la frustrazione di chi per anni aspetta una sentenza e chiede che il suo giudice paghi per errori e inefficienze, ma lasciare ogni giudice in balia delle azioni risarcitorie delle parti di un processo rischia di provocare il corto circuito di tutto il sistema. Per un magistrato che pagherebbe giustamente per i suoi errori, ne avremmo molti altri chiamati in causa per aver fatto il proprio dovere. Chi frequenta le aule di giustizia lo sa e anche i parlamentari dovrebbero saperlo.
Massimo De Luca
Orsoni patteggia e torna subito libero
Motivazione? «La decisione di autoescludersi da ogni carica politica»
Accordo per uscire con una pena di 4 mesi,manon lascia la poltrona
Per i Pm «Non è plausibile che un candidato del suo prestigio si dedicasse a raccattar fondi»
Ma sarà il Gup a dire l’ultima parola sulla congruità dell’intesa raggiunta tra la procura e la difesa
VENEZIA Alle 8.20 di ieri il sindaco Giorgio Orsoni è tornato un uomo libero, dopo una settimana di arresti domiciliari che hanno fatto il giro del globo e con in tasca un accordo raggiunto dai suoi legali (l’avvocato Daniele Grasso e Mariagrazia Romeo) con la Procura per patteggiare una pena di 4 mesi e 15 mila euro di multa (sospesa) per finanziamento illecito ai partiti. «Ho dovuto pagare una goccia del mio sangue per la città», ha commentato il sindaco con chi gli chiedeva il perché di questa scelta. Intesa che, peraltro, ora passerà al vaglio del giudice per le udienze preliminari Vicinanza, che potrà confermare l’accordo o respingerlo, se lo riterrà non congruo. Ieri mattina, il giudice per le indagini preliminari Alberto Scaramuzza ha revocato la misura cautelare che aveva emesso nei confronti del sindaco Giorgio Orsoni, accusato dai pm Ancillotto, Tonini e Buccini di finanziamento illecito ai partiti, per 400 mila euro in arrivo dal Consorzio Venezia Nuova. L’inchiesta ha terremotato la città e l’Italia per i fondi neri con il quale il Consorzio è accusato non solo di aver finanziato candidati di destra e sinistra, ma soprattutto di aver pagato tangenti all’ex presidente della Regione Galan e all’ex assessore ai Lavori pubblici Chisso, oltre che agli ex magistrati alle acque Cuccioletta e Piva. Tra l’arresto e la libertà, un’«articolata e sofferta versione » dei fatti – come scrivono i pm nel dare il loro parere favorevole alla scarcerazione e al patteggiamento – resa dal sindaco di Venezia in un interrogatorio durato quattro ore, lunedì 9 giugno: ricostruzione nella quale Orsoni ammette di aver chiesto sostegno economico per la campagna elettorale a Mazzacurati, ma specificando di averlo fatto su «insistenze reiterate e pressanti del Pd, avanzate dai suoi responsabili politici e contabili Zoggia, Marchese e Mognato» – ricordano i pm – «accolte con riluttanza e soltanto dopo una sorta di intimazione ultimativa, altrimenti avrebbe dovuto provvedere con risorse personali». Orsoni ammette dunque di aver chiesto danaro, ma di non avere idea di quanti soldi siano poi arrivati al Pd: «Ho dato un conto corrente», ha detto ieri in conferenza stampa. «Argomentazione credibile», osservano i pm Ancillotto, Buccini, l’aggiunto Nordio e il procuratore Delpino, «non essendo plausibile che un candidato del prestigio del prof. Orsoni si dovesse dedicare a raccattar fondi con iniziative diffuse e petulanti », «quasi obbligato ad accedere alle consuetudini funeste dei finanziamenti neri, adeguatamente rappresentategli con argomentazioni serrate dai tre responsabili del partito, come unico mezzo per conseguire il successo». Portando a casa ammissioni e un accordo di patteggiamento che mantiene salda la tesi accusatoria, uno dei mattoni dell’inchiesta, i pm sembrano ora quasi “difendere” il sindaco, quando dice di non avere idea di quanti soldi siano arrivati dal Consorzio, quale la loro origine nera e come siano stati spesi: «È credibile che il prof. Orsoni non ne abbia tenuto la contabilità: la sua tradizione accademica e professionale era estranea alla complessa strategia finanziaria che presuppone esperienza specifica e spregiudicatezza di approcci… le sue energie rivolte a consolidare e sfruttare la propria immagine di competenza e probità sarebbero state disperse e forse compromesse nel compito, più grossolano e meccanico, di sollecitare benefici». Perché dunque l’arresto “bomba”mondiale del sindaco di Venezia a fronte di una (probabile) pena a 4 mesi? «L’articolata e sofferta versione dell’imputato da un lato si configura come ammissione di responsabilità penale in ordine al reato contestatogli, dall’altra ne mitiga la gravità, riconducendo gli episodi alla mera esecuzione di una strategia di finanziamento occulto elaborata dai vertici del partito cui lo stesso non si è opposto, ma pur per una propria debolezza, si è prestato, per la maggior autorevolezza che aveva su Mazzacurati: con quei contributi il Pd poté finanziare le iniziative promozionali che aveva minacciato di sospendere se il prof. Orsoni non vi avesse provveduto». Quadro di ammissioni confermato dal giudice Scaramuzza. Sì, dunque, alla scarcerazione, per Orsoni, con curiosità finale: «Il pericolo di reiterazione del reato, tanto più attuale quanto più prossime le nuove elezioni», scrivono ancora i pm, «è eliminato dalla volontà di autoesclusione da ogni carica politica e amministrativa manifestata dal prof. Orsoni, che elimina il rischio di inquinamento della prova legato alla valenza influente della carica ricoperta». A domanda di un giornalista in conferenza stampa- «Sindaco, si dimette?» – la risposta ieri è stata: «No».
Roberta De Rossi
«Mazzacurati si è vendicato ma io resto: non mi dimetto»
Il sindaco contrattacca: «Per questa vicenda mi hanno assimilato ai malfattori
Maciò che più mi addolora è la presa di distanza di qualcuno nei miei confronti»
«Ho incontrato più volte il presidente del Cvn ma dopo le elezioni per il Mose e l’Arsenale»
Non ho pai sospettato che quei fondi per la mia campagna fossero di provenienza illecita»
VENEZIA «È stata la vendetta di Mazzacurati ». Un «millantatore» quando dice di avergli portato i soldi a casa. E la provenienza illecita? «Non potevo sapere da dove venissero quei soldi. Li ho chiesti sollecitato dai partiti della mia coalizione, in particolare il Pd, preoccupati per comestava andando la campagna elettorale». Il sindaco Giorgio Orsoni torna a Ca’ Farsetti. Liberato ieri mattina, dopo una settimana di arresti domiciliari, sceglie come miglior difesa l’attacco. Arriva in motoscafo in municipio dalla Prefettura, dove è stato reintegrato nel suo ruolo, qualche minuto prima delle 13.Adattenderlo il direttore generale Marco Agostini e nel palazzo municipale un gruppo di dirigenti e dipendenti che lo salutano con un lungo applauso. È stanco e tirato, ma affronta con un certo coraggio un esercito di giornalisti, fotografi e tv. «No, non mi dimetto», risponde secco a chi gli chiede se ha pensato di andarsene. Riprende come se nulla fosse accaduto, convoca giunta e capigruppo. Ma prima si toglie qualche sassolino. «Mazzacurati? L’ho incontrato più volte dopo la campagna elettorale. Mi voleva parlare insistentemente, di Mose, di Arsenale e di altre cose. Sull’Arsenale in particolare siamo stati fortemente in disaccordo. La mia iniziativa di darlo alla città e di andare a vedere i conti non gli è piaciuta. Per questo non mi meraviglia ci sia stata una qualche vendetta nei miei confronti ». «E qualcuno», scandisce con la voce un po’ emozionata, «mi ha assimilato a un gruppo di malfattori. Ci saranno conseguenze anche gravi per questo». Pensa a querelare qualche giornale. Ma anche, si dice, a rivalersi per quella che considera una «grande ingiustizia ». Il secondo sassolino è per il Pd. Orsoni lo ripete più volte. «Quei soldi non erano per me, io soldi non ne ho mai visti. Ho dato il mio numero di conto corrente a imprenditori o presunti tali che incontravo casualmente e si offrivano di appoggiarmi. E anche a Mazzacurati. Ma soldi non ne ho mai visti». A curare entrate e uscite ci pensava il suo mandatario elettorale, il commercialista veneziano Valentino Bonechi. E gli altri fondi, circa 400 mila euro che Mazzacurati dice di averle consegnato? «Mazzacurati è un millantatore», si fa serio Orsoni, «sono stato sollecitato a chiedere altre risorse dai partiti della coalizione, e in particolare dal Pd». Orsoni non fa nomi, anche se li ha fatti nell’interrogatorio con i pm che ha preceduto il suo rilascio. Si dice sicuro di aver «chiarito nel modo più inconfutabile la sua assoluta estraneità agli episodi contestati». Il volto tradisce emozione. Ma l’avvocato ha deciso di difendersi da solo e pubblicamente. Accende il microfono nella sala degli stucchi di Ca’ Farsetti e scherza con i giornalisti. «Sono molto felice di incontrarvi dopo una settimana di riposo. Siete stati sicuramente molto impegnati con la Biennale…». Poi liquida con una battuta la vicenda che l’ha visto di colpo precipitare. «Questo provvedimento di revoca degli arresti domiciliari si commenta da solo», attacca, «dopo una settimana e una lunga chiacchierata lunedì con i pm. Veramente era un pezzo che chiedevo di incontrarli per chiarire la mia posizione, ma ho dovuto aspettare ». «Non ho mai sospettato che quei fondi destinati alla mia campagna elettorale fossero di provenienza illecita», ha ripetuto, «non lo potevo sapere anche perché ho saputo solo al termine della campagna l’elenco dei miei sostenitori. Come sapete non mi sono proposto io a fare il sindaco. Era la terza volta che me lo proponevano, e purtroppo non ho avuto la forza di dire di no». «Quello che mi ha addolorato di più in questa vicenda, dice Orsoni con un filo di voce, «è la distanza presa da qualcuno nei miei confronti. Chi? I giornali li leggete anche voi, no?». Infine un bilancio sulla sua gestione del Comune. Destinata comunque a concludersi presto. «Credo di aver gestito la città nel modo migliore possibile. Opponendomi a tutti i concessionari che in città operano e continuano ad operare. Mi sono opposto a coloro che vogliono sfruttare la città. Per questo mi sono fatto tanti nemici».
Alberto Vitucci
LO SFOGO con i consiglieri
«Io non c’entro nulla con questo pantano»
Nell’incontro con i capigruppo Orsoni si è detto stanco, ma con la coscienza pulita
VENEZIA Raccontano di un sindaco amareggiato ma deciso a far valere le proprie posizioni, di un sindaco che ha parlato di una “politica debole” e che non ha nascosto la sua perplessità nei confronti della magistratura per averlo tirato in ballo per una vicenda che, con i reati contestati alle altre persone arrestate, come la corruzione e il riciclaggio, non c’entra nulla. «Io di quel sistema non faccio parte». Tanto più che non era lui, come aveva già occupato in conferenza stampa, ad occuparsi della raccolti di fondi per la campagna elettorale. Raccontano questo i consiglieri comunali che ieri pomeriggio, dopo la riunione di giunta e prima di quella di maggioranza hanno partecipato all’incontro dei capi- gruppo. Rispondendo alle loro domande – secondo quanto raccontano gli stessi consiglieri – Orsoni avrebbe spiegato di non aver ancora patteggiato, madi stare valutando la possibilità. Una scelta che, a suo dire, non andrebbe letta come ’ammissione di responsabilità – come sostiene invece l’opposizione, una scelta sulla quale anche il Pd nutre qualche dubbio – ma come la volontà di «uscire quanto prima da questo pantano con il quale non c’entro nulla», secondo gli appunti presi da alcuni consiglieri. Orsoni ha poi aggiunto di avere la coscienza pulita, ha spiegato di non essersi mai occupato della raccolta di fondi e di essersi pentito di aver accettato l’invito, che già aveva rifiutato in passato per due volte, di candidarsi a sindaco della città. Ha spiegato di essere stanco e di valutare anche le dimissioni, ma preferibilmente solo dopo l’approvazione del bilancio a patto che, ovviamente, ci sia una maggioranza disposta ad accompagnarlo in questo non facile percorso. Dopo l’incontro con tutti i capi-gruppo quello con le forze di maggioranza, che si è conclusa a tarda sera. Questa mattina un nuovo vertice di maggioranza per decidere come e se andare avanti, anche se lo spettro delle dimissioni è sempre più probabile a Ca’ Farsetti.
(f.fur.)
Tribunale della Libertà, oggi i primi riesami
Arriva il momento delle prime sentenze, seppur a livello di riesame, per gli arrestati dell’inchiesta Mose. Oggi, negli uffici al quarto piano della cittadella della Giustizia a Venezia, primo appuntamento davanti ai giudici del Tribunale della Libertà. Di fronte a loro sfileranno i difensori di tre indagati: le udienze fissate sono quelle per il consigliere regionale del Pd Giampietro Marchese (accusato di finanziamenti elettorali illeciti dal Consorzio Venezia Nuova), il titolare della Selc, Andrea Rismondo, e il presidente del Coveco, Franco Morbiolo, questi ultimi accusati di corruzione. Rismondo si trova ai domiciliari, Marchese e Morbiolo, due delle figure di spicco dell’inchiesta, sono dal 4 giugno in carcere. Ascoltati i difensori, i tre giudici del Riesame si riuniranno in camera di consiglio, entro sera a potrebbero arrivare le prime decisioni. Dal 18 giugno iniziano le udienze per Stefano Boscolo, Luciano Neri e Federico Sutto. Non hanno invece presentato istanza al riesame gli avvocati dell’assessore regionale Renato Chisso.
Zoggia e Mognato si ribellano
«Quereliamo: mai partecipato a incontri per finanziare il partito democratico»
VENEZIA «Qualsiasi tentativo di accostare il mio nome all’inchiesta sul Mose è pura illazione: ho già dato mandato ai miei legali di tutelare la mia onorabilità». Così Davide Zoggia, parlamentare veneziano del Pd tirato in ballo negli interrogatori dal sindaco Orsoni per i presunti finanziamenti illeciti ricevuti dal Consorzio Venezia Nuova, rispedisce le accuse al mittente. «Non ho mai partecipato a riunioni in cui si discutesse di finanziamenti illeciti», dice, «il mio ruolo nella campagna elettorale era di natura politica». Simile la reazione di Michele Mognato, parlamentare Pd all’epoca vicesindaco della giunta Cacciari. «Non ho mai preso parte a incontri nel corso dei quali si siano soltanto ipotizzati finanziamenti illeciti», scrive in una nota, «qualsiasi accostamento del mio nome a questa vicenda rappresenta una mera illazione e in quanto tale ho già dato mandato ai miei legali di tutelare il mio nomee la mia onorabilità». I due parlamentari veneziani del Pd non ci stanno dunque a essere accostati alla vicenda dei finanziamenti illeciti. Era stato il sindaco Giorgio Orsoni, nell’interrogatorio di lunedì, a spiegare che la sua richiesta di finanziamenti, che riteneva perfettamente leciti, era dovuta alle insistenze dei responsabili politici e contabili del partito democratico, in particolare appunto Giampietro Marchese (il tesoriere), l’allora responsabile degli enti locali nazionali ed ex presidente della Provincia Davide Zoggia, il vicesindaco ed ex segretario del partito Michele Mognato. Secondo il primo cittadino delle spese per la campagna elettorale lui non si sarebbe mai interessato. Ci pensava il suo mandatario, il commercialista veneziano Valentino Bonechi. E per il resto «i partiti della coalizione e in particolare il Pd, il partito maggiore». Marchese, in carcere per altre accuse della stessa inchiesta, ovviamente non replica. Lo fanno invece Zoggia e Mognato. Che insistono sulla «piena legittimità » della loro azione nella campagna elettorale che poi portò Orsoni a conquistare la poltrona di sindaco, battendo nettamente il candidato del centrodestra, appoggiato dal governo Berlusconi e dal presidente della Regione Galan, Renato Brunetta. Anche Brunetta aveva ricevuto finanziamento da imprese del Consorzio. «Ma tutti regolari, ricevuti con bonifici e denunciati», ricorda il responsabile della sua campagna elettorale Michele Zuin.
(a.v.)
«Tra persone di mondo si usano maniere discrete»
La scrittura ha sapore d’altri tempi: «Tra persone di mondo questi affari si regolano con comportamenti concludenti e discreti, senza formule sacramentali e atteggiamenti grossolani. È dunque perfettamente plausibile che la “consegna a domicilio” riferita dall’ing. Mazzacurati sia stata una pura e semplice collocazione di una busta anodina in una stanza qualunque con vereconda indifferenza, seguita dalle consuete reciproche manifestazioni di cavalleresche cortesie. Nessuna persona ragionevole può pensare che un tale incontro, imbarazzante per entrambi, si sia concluso con una metodica verifica contabile di una frusciante mazzetta». Così, nel provvedimento con il quale danno parere favorevole al ritorno in libertà del sindaco, i pm trovano la quadra tra l’ingegner Mazzacurati che dice di aver consegnato personalmente al sindaco, nella sua casa di San Silvestro, in più occasioni, contributi elettorali per 450mila euro; e il sindaco Orsoni che nega risolutamente qualsiasi consegna brevi manu: «È un millantatore», ha detto in conferenza stampa. La Procura sottolinea la sostanza: «Entrambi ammettono che il contributo fu versato per sovvenzionare una campagna elettorale che si presentava movimentata e costosa e che dopo l’iniziale versamento vi furono diverse sollecitazioni del candidato sindaco al presidente del consorzio per finanziamenti ulteriori».
(r.d.r.)
Elezioni, le imprese pagano tutti
Nella campagna 2010 fondi anche per Brunetta. Zuin: «Ma era tutto registrato»
VENEZIA Chi paga la campagna elettorale? Il clamoroso arresto del sindaco Orsoni – e la sua scarcerazione dopo una settimana e due interrogatori – ripropone il tema del finanziamento ai partiti. Abolito quello statale da una legge dello Stato e dal referendum, restano i contributi più o meno volontari che vengono ai candidati da industriali, imprenditori e singoli cittadini. Nel caso dell’inchiesta Mose i magistrati accusano Orsoni di aver ricevuto finanziamenti di provenienza illecita dal presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati. «Non potevo immaginare da dove venissero i finanziamenti delle imprese», si è difeso Orsoni, «e in ogni caso questi sono stati consegnati al mio mandatario e al comitato elettorale composto dai partiti che mi sostenevano». Centinaia di migliaia di euro versati secondo Orsoni nella cassa dei tesorieri della campagna. E usati per fini assolutamente leciti, come le pubblicità su radio, giornali e tv, i volantini e le brochure, le iniziative elettorali. Un reato, hanno ripetuto in questi giorni i difensori del sindaco- avvocato, tutto da provare, che sta comunque su un piano assolutamente diverso da quelli contestati alla «cupola » della corruzione, che pagava per ottenere favori e pareri addomesticati sulla grande opera. I finanziamenti dai privati sono del resto ormai una costante delle campagne elettorali di tutti i candidati. Che organizzano cene di lusso con imprenditori e finanzieri proprio allo scopo di raccogliere fondi. È il caso di Renato Brunetta, fedelissimo di Berlusconi, economista, ex ministro, che nel 2010 correva contro Orsoni per conquistare la poltrona di sindaco. Famosa la sua cena all’hotel Monaco con imprenditori e soggetti economici veneziani. «Ma i nostri contributi non superavano qualche migliaio di euro alla volta», ricorda Michele Zuin, allora responsabile della campagna di Brunetta insieme a Alessandro Danesin, «e tutto era registrato ufficialmente. Niente soldi, ma versamenti nel nostro conto corrente. Tutto documentato». Tra le imprese finanziatrici di Brunetta – che allora era più di Orsoni sostenitore del Mose – ci sono state anche imprese del Consorzio Venezia Nuova. «È possibile», conferma Zuin, «del resto io non li conosco tutti gli imprenditori che fanno parte del Consorzio Venezia Nuova». Ma per i fondi del Consorzio a finire nei guai è stato il sindaco Giorgio Orsoni. «È stata una vendetta di Mazzacurati »,ha detto ieri.
(a.v.)